Ambiguità della scienza

di Raimundo Panikkar

aggiornato: 29.03.2005 10:08


In uno dei novenari in cui sono solito raccogliere le mie riflessioni su vari argomenti, parlo della necessità di scoprire i limiti della stessa scienza, che è stata estrapolata dal campo scientifico e che si è diffusa come un cancro nella mentalità dell'uomo moderno, sia orientale sia occidentale. La scienza non è più un monopolio dell'Europa e dell'Occidente. In India ci sono più di 2 milioni di scienziati, dei quali più di 1 milione si dedica alla difesa, come del resto il 55% di tutti gli scienziati del mondo.

Relativizzare la scienza

Che cosa dobbiamo fare della scienza? Prima di tutto, non adorarla come se fosse il nuovo vitello d'oro. Secondo, sfuggire al suo fascino; terzo, superare quello che la scienza ci ha voluto far credere, vale a dire che essa ci offra una spiegazione della realtà, cosa che i veri scienziati non hanno voluto mai fare. Siccome c'è un vuoto cosmologico nella civiltà dove la scienza è prosperata, si sono convertite le spiegazioni scientifiche in spiegazioni cosmologiche. Vista in una certa prospettiva, la teoria del big bang, ad esempio, è di un'ingenuità così straordinaria che, se non si pensasse che il mondo attuale ha quasi tre milioni di soldati e che esiste la follia degli armamenti, verrebbe da credere che questa cosa non sia possibile tra gli uomini sapienti; quarto, superare la giustificazione della figlia prediletta della scienza, la tecnologia, la quale ci fa credere, grazie alla propaganda, di essere indispensabile per la vita in modo tale che senza la medicina allotropica, senza gli antibiotici (che ironicamente significano anti-vita), senza tutto quello che ha introdotto la mentalità scientifica, l'uomo morirebbe di fame, di malattie. Questo è semplicemente falso. Quinto, e più importante perché è anche più pacifico, scoprire i limiti interni della scienza.

La scienza contemporanea quella per esempio di un Sheldrake, di un Capra, di Prigogine o di David Böhm, che io vorrei distinguere dalla scienza moderna, non è più significativamente la scienza della causalità, nemmeno la scienza che vuole spiegare tutto con paradigmi matematici, è tutta un'altra concezione, scaturita da una crisi interna della scienza, dove la probabilità stessa è messa in causa. La scienza forse, da questo punto di vista, sta arrivando essa stessa ai propri limiti e questo è un momento importantissimo. Tra qualche giorno, in un'altra capitale europea, parteciperò a un convegno su «Scienza e spiritualità» dove, insieme ai nomi che ho citato e ad altra gente ancora, discuteremo su questo tema. Non si può negare che negli ultimi trecento anni la parte più importante del globo sia vissuta con questa credenza e, se chiediamo rispetto per i pigmei, si può avere rispetto anche per i Paesi che si credono soprasviluppati perché hanno una mentalità scientifica, ma vanno trattati con gli stessi metodi, ossia vanno relativizzati.

La scienza stessa sta arrivando ad una scoperta dei propri limiti. La conseguenza più immediata sarebbe una completa revisione della forma di educazione della scuola primaria e secondaria in tutti quei paesi, come l'Italia, dove la scienza ha un primato che uccide veramente la creatività, la spontaneità. impedisce la gioia e la vera educazione dei giovani. Questo mi fa venire in mente l'affermazione di Gandhi, il quale sosteneva che l'unico modo per sviluppare l'intelligenza è l'esercizio dell'artigianato e il funzionamento delle proprie mani. Si potrebbe così superare quella specie di fatalismo occidentale che pensa che non possiamo fare a meno dell'impresa tecnico-scientifica. La conseguenza più a lungo termine è quella che io ho chiamato l'emancipazione dalla tecnologia.

Tecnica e tecnologia

Io faccio la distinzione fra technè e tecnologia, tra la macchina di primo grado e la macchina di secondo grado. La technè, che possiamo tradurre con «tecnica», ma che si potrebbe tradurre con «arte», è patrimonio di tutte le culture. Tutte le culture hanno technè, cioè una certa manipolazione della materia o del mondo materiale, e del mondo anche non materiale, per il benessere umano; un certo fare arte, articolare le cose e servirsi di tutte le possibilità inerenti alla natura per il benessere degli uomini. Technè non è soltanto il martello o le vele o l'elettricità forse, tradotta in un certo qual modo, ma è tutto ciò che utilizza le forme primarie di energia. Con questa technè si fabbrica la macchina di primo grado, l'utensile. Questo utensile è buono o cattivo secondo l'uso che ne faccio; la penna o il martello sono buoni o cattivi secondo l'uso che se ne fa, dunque sono ambivalenti. Non avviene così con la macchina di secondo grado, con quella che chiamerei tecnologia. È solo l'inerzia della mente che ci impedisce di vedere con chiarezza questo fenomeno. E non è a caso che lo sviluppo si sia prodotto fondamentalmente all'interno della civiltà europea.

Dentro la civiltà cinese, ad esempio, c'è un momento, il 1300, di una forza straordinaria, nel quale ci si rende acutamente consapevoli della necessità d'una svolta, per non arrivare alla bomba atomica e quindi alla distruzione del mondo. In Occidente, invece, ci siamo arrivati senza soluzione di continuità, tanto che non abbiamo nemmeno una parola per spiegare quello che non è un universale culturale, che non è technè, che non è patrimonio di tutti i popoli, ma è tecnologia. La tecnologia porta, è la parola che a me piace di più, alla tecnocrazia: il kratòs, il potere, sta in questa forma di utilizzazione della macchina di secondo grado! La macchina di secondo grado che si realizza non in maniera naturale, ma utilizzando macchine di primo grado che permettono di trasformare le forme di energia e di realizzare l'accelerazione. Penso agli acceleratori atomici del Cern, ad esempio. La macchina di secondo grado non soltanto condiziona le nostre abitudini, ma addirittura ci obbliga, altrimenti facciamo bancarotta.

Cambia così lo stile di vita, cambiano le nostre vite, cambia il modo di pensare. Questa sarebbe una rapida analisi della macchina di primo grado e di questo utensile di secondo grado che hanno leggi differenti, che hanno accelerazioni diverse: non dimentichiamo quella legge, conosciuta da tutti ormai, che un cambiamento quantitativo genera anche un cambiamento qualitativo. Perciò io nego che la tecnologia moderna sia neutrale e universale. La technè è gestita dallo spirito, devi essere ispirato e allora trovi tutto, pure la gioia, e allora non hai nemmeno bisogno e desiderio che ti paghino, perché quello con cui ci si realizza non è monetizzabile.

Comincia così un processo di demonetizzazione della cultura che vorrei approfondire. Invece nella tecnologia è la ratio che ha sostituito la technè e allora ... Chateau Neuf du Pape! Ci sono 5 mila motivi per abbandonare la produzione artigianale del vino dei Castelli, del Frascati, lo sapete molto meglio di me. Ormai o ne produci 5 milioni di bottiglie oppure non è possibile, non è redditizio: ecco il cambiamento quantitativo a cui sei obbligato, altrimenti non puoi far niente. E tu cominci ad avere un'altra concezione della vita e, evidentemente, anche un altro vino.

Superare la conoscenza scientifica

Non ho l'intenzione di demonizzare la scienza e nemmeno la tecnologia. Ho chiarito abbastanza che cosa non dobbiamo fare con la scienza, forse non ho sufficientemente sviluppato che cosa ne possiamo fare. Ho parlato dell'emancipazione dalla tecnologia, di ridurre la scienza ai suoi limiti e in un terzo momento, che non ho elaborato a sufficienza, di superare la scienza moderna, portando l'esempio che nella scienza contemporanea ci sono spunti enormemente positivi per questo superamento.

Comunque e qui verte il mio dibattito per esempio con Prigogine, premio Nobel per la fisica col quale ho discusso parecchie volte — e dopodomani penso che questo dibattito continuerà — , non sono d'accordo con lui nel voler ridurre tutto a scienza, anche se egli apre enormemente i limiti, i confini e la concezione di questa scienza. La scienza moderna, finora anche quella contemporanea, è legata alla misura ed esclude gli eventi unici: un evento unico non è oggetto di scienza. E per me, e forse per la vita umana, gli eventi unici e irripetibili sono quelli più importanti e più decisivi, eppure non sono oggetto di scienza. La scienza consiste nel capire, nel conoscere.

Ho analizzato a lungo questo atteggiamento e mostrato che la parola capire o la parola conoscere può avere due sensi: il senso in cui la scienza moderna l'utilizza e il senso in cui altre tradizioni, inclusa l'occidentale, l'hanno utilizzato. Se «scienza» dopo Bacone (è lui ad affermare che conoscere è potere) vuol dire poter non soltanto controllare, ma conoscere i comportamenti, per me questo capire o conoscere non è ciò che la gran parte dell'umanità, Occidente incluso, ha inteso con queste parole. C'è una forma molto specializzata, molto ridotta, di «capire e conoscere» che è il calcolare, il prevedere, l'avere una certa conoscenza dei comportamenti di regolarità o anche di situazioni caotiche, del caos nel senso fisico della parola, che ci porta a una grande fiducia e a un gran risultato: la scienza del positivo.

Io ho passato 7 anni a fare niente altro che scienza. La scienza è un'attività umana affascinante, non soltanto per il rigore e il metodo che si richiedono nella ricerca scientifica, ma anche per tutto questo sforzo di trovare e di districare i comportamenti e i misteri della natura, sebbene facendole violenza. La scienza usa le cose più grandi che l'essere umano abbia fatto, sarebbe assolutamente contro il mio parere voler dire in questo senso qualcosa di negativo della scienza. Ma la scienza ha estrapolato in maniera non scientifica, volendo diventare cosmologia e volendo soppiantare tutte le altre forme di conoscenza. Che questo sia avvenuto non per responsabilità della scienza ma per colpa dei teologi, che praticavano una teologia completamente assurda, angusta, può darsi, ma non è il punto in discussione. La responsabilità risiede in Bellarmino, se volete, e in tutta la teologia del suo tempo, ma questo è un altro paio di maniche.

È proprio il desiderio di fare un discorso scientifico in quanto scientifico che mi porta a dire quello che sto cercando di dire. Ma assolutamente non vorrei dare l'impressione di demonizzare la scienza o di non riconoscere che la scienza non abbia fatto nulla di positivo. Mi vorrei ben guardare dalla volontà di ritornare indietro, all'età prescientifica e acritica, al romanticismo dei villaggi, della vita semplice; non solo perché non si può tornare indietro, che è già una tautologia, ma perché penso che il fenomeno scientifico, in questo senso, sia un contributo stavo per dire essenziale, direi esistenziale che non si può togliere nel fiorire della vita umana. Ma, come capita spesso nella vita spirituale delle persone, quello che è stato un grande mezzo per tante realizzazioni positive può diventare a un certo momento un ostacolo. Questa, a mio parere, è la situazione in cui si trova la scienza moderna oggi, senza parlare adesso della relazione della scienza con la tecnologia, che mi appare come un atteggiamento diverso, benché la tecnologia sia un ibrido e oggigiorno non si possa fare scienza moderna senza il profitto ecc., ma questo è tutto un altro discorso.

La relazione ambigua tra scienza e cosmologia

Bisognerebbe anche studiare molto più in profondità la relazione tra scienza e cosmologia. La mia tesi, detto in maniera schematica, è che la scienza ci offre un elemento, un parametro per la cosmologia di cui noi abbiamo bisogno, ma che le due cose non si possano identificare e che non possiamo avere una cosmologia che sia frutto esclusivamente della ricerca scientifica. Per questo motivo io ce l'ho con gli scienziati che vogliono fare della scienza una cosmologia. Il best-seller Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, recentemente tradotto in italiano, ne sarebbe l'esempio più chiaro. Bisognerebbe esercitare a questo punto proprio una doppia critica: una è l'estrapolazione ascientifica che consiste nel passare da conoscenze scientifiche a intuizioni cosmologiche. Penso che la scienza moderna non ci dia una visione del mondo e non ce la voglia dare, ma siamo noi che, non potendo vivere senza cosmologia, prendiamo l'unica cosa che abbiamo in mano, ossia tutta l’imponente costruzione scientifica, e ne facciamo una cosmologia. Mi pare che stia avvenendo proprio questo, come ho scritto in uno dei miei saggi che aspettano di essere completati e che s'intitola Il conflitto delle cosmologie.

La mia seconda critica è una critica dello statuto epistemologico della scienza. Prima di addentrarmi nell'argomento vorrei premettere una osservazione di carattere sociologico. Siccome ho vissuto anche in ambienti puramente scientifici, dove ho lavorato con passione sui mesoni con Hideki Yukawa, sulla fotosintesi, mi sono accorto che in certi ambienti esistono sempre dei tabù. Un tabù dei seminari dei tempi andati era il sesso; nei seminari non si parlava di sesso. Tra gli psicoanalisti un altro tabù, che con alcuni amici abbiamo cercato di rompere, è parlare di Dio: di Dio non si parla. In parecchi ambienti criticare la scienza non è possibile perché la scienza è universale, neutrale e due più due fa quattro dappertutto. lo contesto anche il fatto che due più due faccia quattro dappertutto: due più due fa quattro soltanto dove il due e il quattro non significano niente. Ma non è questo il punto. Credo, comunque, che i tabù continuino a funzionare, anche se ritengo che gli scienziati, dal punto di vista sociologico, siano fra le persone più intelligenti della società.

Ho sperimentato che a volte parlare con tutta questa gente religiosa, spirituale, non è molto stimolante sotto il profilo intellettuale. Non voglio però fare una critica né allo scientismo né alla tecnoscienza. La mia critica nel senso tecnico della parola, è una critica epistemologica, verte sullo statuto epistemologico della scienza come conoscenza. Parlo della scienza moderna postgalileiana, della scienza fisico-matematica, della scienza che matematizza, che per esprimere qualsiasi cosa ha bisogno di parametri che si ripetono, quantitativi e, in certo qual modo, comprensibili, anche se non immediatamente intelligibili, come avviene con il calcolo delle probabilità, le geometrie non euclidee o le matrici, che hanno aperto nella scienza campi straordinariamente profondi e fecondi. Quindi il mio discorso è strettamente filosofico e si limita a individuare i limiti della scienza moderna come conoscenza della realtà.

I limiti interni della conoscenza scientifica

La scienza deve procedere per astrazioni, questo è ovvio. E la mia critica è che la scienza utilizza non solo una prima astrazione, ma una seconda, una terza, una quarta: cioè in qualsiasi problema dobbiamo ricavare subproblemi e trovare subsistemi. La fisicochimica è l'esempio classico, ma oggi anche la macrobiologia o la microbiologia cominciano a farlo. Di questi subsistemi noi possiamo in un certo qual modo trovare il comportamento e dedurre le regole che lo permettono. Io sostengo due cose:

  1. che se anche potessimo trovare tutte le regolarità interne e il comportamento di tutti i subsistemi o sub-subsistemi, questi o l'integrazione di questi non ci darebbero ancora il comportamento del sistema. E oggi sia nella metereologia, sia nel problema del campo di Prigogine, nei sistemi del disordine, si arriva ormai persino nella scienza stessa ad accettare che il riconoscimento dei sub-sistemi e l'integrale dei subsistemi non porta alla conoscenza del sistema. Questo vuol dire che si sta andando fuori dalla realtà per farne l'integrazione;
  2. che tutta la scienza, intesa come questa conoscenza fisico-matematica della realtà, è un'astrazione sia della realtà oggettiva sia - fatto più grave ancora - del soggetto conoscente. Il soggetto conoscente deve usare, per così dire, il cannocchiale scientifico dell'astrazione matematica, mentre la realtà sia nel soggetto sia nell'oggetto è molto più variopinta, in quanto realtà non in quanto cosa.

Dunque, trovare i limiti propri dell'attività scientifica: questa è la mia critica. All'interno dell'attività scientifica ho soltanto da imparare e penso che si tratti di una delle conoscenze che, sociologicamente parlando, hanno realizzato più progressi nella storia dell'umanità. Nessun risentimento contro il mondo scientifico o contro la scienza, forse critica al suo predominio nella società. Questo però è un altro piano, ma soprattutto ribellione a questa riduzione del pensare e del conoscere, al calcolare nella forma più profonda del termine.

Ho spiegato più volte che l'origine filologica delle due grandi radici culturali indoeuropee è quest’attività per la quale l'uomo è l'uomo, il pensare. Pensare è già qualcosa come pesare. Le due radici sono men e med. Da men viene mens-mentis, mein, mensura, e anche, nei linguaggi anglosassoni e germanici, mount che deriva da moon, perché la luna serve a misurare, mind, e dunque la misura, la quantità, la quantificazione, lo studio dei comportamenti di una certa realtà che si possono tradurre in termini matematici misurabili.

I colori, prima della scoperta del significato di onde e di frequenza, non si potevano misurare; quindi i colori, basti pensare a Goethe, non entravano nella scienza. Oggi abbiamo trovato i parametri di correlazione e possiamo dire giallo, verde ecc... perché abbiamo trovato una certa lunghezza, un certo numero di Angstron, una certa frequenza, che ci permettono di stabilire una correlazione, ma nessun uomo attuale identificherà il numero di Angstron che definisce il verde con il colore verde. Nel colore verde ci sono molte altre cose. Nella luna anche ci sono tante altre cose. Domandate ai cani quando c'è un'eclisse, domandate ai poeti o agli innamorati; ma noi ormai pensiamo che la luna sia un corpo fisico punto e basta e che le altre siano metafore belle per coloro che ancora non sono scienziati. Contro questo riduzionismo sì esercita la mia critica, non contro ciò che la scienza può dire sul peso, la densità, l'atmosfera, i crateri e tutti gli altri aspetti della luna. La mens rende l'uomo uomo e quindi qualsiasi cosa che vada contro la razionalità, il rigore, la misura sarebbe oscurantismo. L'altra radice è med da dove, molto significativamente, vengono le parole: «medicina», «meditazione», «moderare», nel doppio senso della parola, nel senso di essere modesto, di avere perciò il senso della situazione e nel senso di guidare. «Moderatore» è colui che comanda, ma che comanda adattandosi alla realtà, avendo un sesto senso per vedere come le cose si devono condurre, perché ha visto e sentito qualcosa di più. «Medicina» è la forma di mederi, di farti arrivare alla salvezza, salus; salute e salvezza, soter e soteria, in sanscrito sarvam, che vuol dire «tutto». E meditazione è questo rientrare in armonia con la realtà senza forzarla.

Lo strumento della scienza invece è l'esperimento, che fa una certa violenza a quello che ho dinanzi a me. Io cerco di mantenere fisso un certo numero di punti, stabilisco alcune variabili, incido con qualsiasi cosa, vedo come esse reagiscono al mio colpo e prendo nota delle loro reazioni. Osservazione, esperimento, esperienza L'altra forma dì conoscenza, che è stata un po' atrofizzata e che per incentivo creativo forse è la più importante, e l'osservazione. L'osservazione è diversa dall'esperimento. Quando Faraday, sei anni prima di fare la scoperta che permette tutta la nostra civiltà tecnologizzata, scrisse nel suo diario «to convert magnetism into electricity», questa intuizione non era frutto di alcun esperimento, ma di un'osservazione. Quando Kekulé, viaggiando in un caldo pomeriggio d'estate in uno di questi bus di Londra passò per lo zoo londinese e vide che le scimmie si arrampicano le une sulle altre agitando le braccia; nella sua mente scoccò l'idea della struttura del carbonio, l'esagono del carbonio. Non era un esperimento, era un’osservazione. Poi ha trascorso tutta la notte, dice lui, a riflettere su questa visione: congettura che questo vada bene per carbonio e idrogeno e comincia a trovare la struttura di tutta la chimica organica.

«Je commençais a supposer», dice Lavoisier... Tutto è collegato, ma l'esperimento non è l'osservazione. Forse l'osservazione è propria del genio o dell'uomo paziente, ma senz'altro è patrimonio di tutti: tutti possiamo osservare. Noi abbiamo perso questa capacità di osservazione, perché per l'osservazione bisogna essere pazienti, bisogna rispettare i ritmi (potrei citare la mela di Newton). L'osservazione non fa violenza alla realtà, lascia che la realtà ti parli, si avvicini a te e tu sei aperto osservando. Noi abbiamo quasi dimenticato l'osservazione perché abbiamo a che fare con l'esperimento nel quale procediamo molto più speditamente. Facciamo esperimenti su tutto: persino la sessuologia fa esperimenti (o per lo meno un certo tipo di sessuologia, un'altra è molto più saggia), la psicologia fa esperimenti. C'è anche l'osservazione, ma spesso l'equilibrio non è troppo stabile. L'osservazione è un'altra finestra sulla realtà, meno violenta dell'esperimento perché accetta determinati ritmi nell'entrare in contatto con il reale, con la consapevolezza che chi osserva entra in un rapporto tale con l’osservato da modificarlo.

La grande autoaccusa dell'Occidente è che abbiamo dovuto aspettare fino al 1926, quando il suo libro è stato pubblicato, perché Heisenberg ci parlasse del principio di indeterminazione. Se abbiamo avuto bisogno di aspettare fino ad Heisenberg per capire che l'osservatore modifica l'osservazione significa che avevamo perso il senso dell'osservazione. C'è ancora un'altra grande capacità che è rimasta abbastanza sottosviluppata ed è l'esperienza. Se l'osservazione ha una certa qual direzione centrifuga, l'esperienza ha una direzione centripeta. Cioè io sono il modificato, la cosa fa parte di me, mi sono aperto e la realtà dal di fuori è entrata dentro di me e ha fatto parte di me. Combinare giustamente esperienza, osservazione ed esperimento e non buttarsi solo sull'esperimento, questo è il mio richiamo centrale quando parlo della scienza. E non vorrei essere interpretato un po’ alla svelta come uno che intende mettere un freno alla scienza, atteggiamento che considero sbagliato.

Il classificatore non entra nella classificazione

A proposito dell'evoluzione, voglio osservare che l'evoluzione è parte dell'osservazione e perciò molti dicono che l'evoluzione non è una scienza, ma un’ipotesi di lavoro molto utile che serve a un certo inquadramento di numerosi fatti. Io ho una riserva nei confronti dell'evoluzione, sia dal punto di vista logico sia scientifico, almeno nel senso in cui si utilizza questa parola oggi. Non ho nessuna autorità per dire se l'evoluzione o la non evoluzione sia un'ipotesi plausibile o probabile o provata nel campo dell'evoluzione delle specie. Per quanto riguarda un senso globale dell'evoluzione del cosmo, penso che sia un'ipotesi molto utile e molto plausibile, ma non posso accettare l'evoluzione come filosofia per la seguente ragione: l'evoluzione è frutto del genio classificatore dell'Occidente; da Aristotele, passando per Porfirio, fino alla scienza moderna è tutto un classificare. Si classificano le cose: solforico non è solforoso o solfidrico, la specie A non è la specie B, la sottospecie C è già diversa dalla sottospecie D e via discorrendo.

È questa classificazione che ci permette di vedere un rapporto, e anche un'evoluzione, se proiettiamo una situazione statica in un paradigma dinamico, in un tempo a cui si conferisca un certo movimento, come avviene dei fotogrammi con i quali si realizza un film. Ma due cose per principio non possono entrare in nessuna classificazione — e la scienza moderna si basa fondamentalmente sul classificare —: il criterio di classificazione, che non può entrare nella classificazione senza dare origine a un circolo vizioso, e il classificatore. E quando io domando che cos'è l'uomo e mi si risponde animale, bipede, parlante, saggio, habilis, proveniente dalle api; prima o dopo il pithecantropus erectus, uomo di Neanderthal, mi accorgo che tutte le classificazioni lasciano fuori un'unica cosa, che è quella che interessa a me e che forse interessa ciascuno di noi: che cosa sono io, non che cosa è l'uomo, che cosa sei tu. E alla risposta che cos'è l'uomo, messo in terza persona, l'uomo, che è il classificatore non può trovare risposta inserendosi nella classificazione. Quindi nessuna risposta evolutiva di una classificazione mi può dire chi è il classificatore. È la domanda che costituisce la tragedia della gioventù di oggi. che chiede di sapere che cosa sia il classificatore mentre noi le rispondiamo con le classificazioni. Il classificatore è un'altra cosa: è il mistero umano o cosmoteandrico, divino, materiale . Eccoci ancora un'altra volta dinanzi ai limiti della teoria dell'evoluzione.


Home