LA TOTALE ESTINZIONE

(Mahâparinibbanâsutta)

tradotto dal pâli e condensato da Giuseppe De Lorenzo
riveduto sul testo originale e corretto nella presente versione da Flavio Pelliconi

(aggiornato il 15.03.2005 )


PRIMA PARTE

L’ambasciatore del re

Questo io ho udito:

Si era tra la fine della fioritura ed il principio della calura [nel maggio del 543 a.C., N.d.R.] e il Sublime dimorava presso Râjagaha, sulla montagna del Picco del Vulture. Ora, proprio allora, il re di Mâgadha, Ajâtasattu Vedehiputta, voleva far guerra ai Vajjî e andava dicendo: «Io abbatterò questi Vajjî, cosí riottosi, cosí violenti, li sterminerò, li farò sparire dalla faccia della terra!». E il re Ajâtasattu ordinò al brahmano Vassakâra, primo ministro di Mâgadha: «Va’ tu, brahmano, dal Sublime, riveriscilo da parte mia, informati sulla sua salute, auguragli a nome mio salute, forza, freschezza e benessere, riferiscigli la mia intenzione di attaccare e debellare i Vajjî, e riportami quel che il Sublime ti dirà, perché i Compiuti non parlano invano».

«Sí, signore!»: rispose il primo ministro Vassakâra al re Ajâtasattu; fece quindi aggiogare bellissimi carri, salí in uno di essi, e, seguito dagli altri, sortí da Râjagaha, dirigendosi verso la montagna del Picco del Vulture. Dopo aver proceduto con essi fin dove la via era carrabile, smontò dal carro e si diresse a piedi là dove dimorava il Sublime. Là giunto, salutò riverentemente il Sublime, scambiò con lui cortesi, notevoli parole e, dopo esserglisi seduto accanto, riferí al Sublime punto per punto l’ambasciata e l’incarico avuti dal re Ajâtasattu.

Ora, in quel mentre, il venerabile Ânanda stava alle spalle del Sublime, facendogli fresco col ventaglio. E il Sublime si volse al venerabile Ânanda, interrogandolo: «Hai tu forse sentito, Ânanda, se i Vajjî si riuniscono spesso, hanno frequenti adunanze; se si adunano concordi, si sciolgono concordi, adempiono concordi i loro affari; se essi non promulgano nuove leggi, non aboliscono le antiche leggi e si mantengono fedeli alla loro antica tradizionale costituzione; se essi stimano, pregiano, rispettano ed onorano i loro anziani e ne accettano il consiglio; se essi non fanno violenza alle loro donne; se rispettano, onorano e adorano gli altari, i templi e le tombe delle loro terre; se essi accolgono ospitalmente, mantengono e proteggono i santi pellegrini, sia indigeni che estranei?».

Assentí il venerabile Ânanda, confermando quel che il Sublime chiedeva sul retto modo di vivere dei Vajjî. Allora il Sublime si volse a Vassakâra, il primo ministro di Mâgadha: «Una volta, o brahmano, mentre dimoravo presso Vesâli, ho esposto ai Vajjî queste sette regole imperiture. E fino a quando, o brahmano, queste sette regole imperiture persistono presso i Vajjî, e i Vajjî ad esse si attengono, c’è da aspettarsi un prosperare dei Vajjî, non il loro perire».

Dopo queste parole Vassakâra, primo ministro di Mâgadha, disse al Sublime cosí:

«Anche se i Vajjî fossero dotati di una soltanto di queste sette regole imperiture, ci sarebbe da aspettarsi un loro prosperare, non un perire: tanto piú se dotati di tutt’e sette. No, signore Gôtama, i Vajjî non potranno esser vinti in guerra dal re Ajâtasattu, altrimenti che col tradimento e con la discordia. Orsú dunque, signore Gôtama, ora ce ne andiamo: molti doveri ci aspettano, molti affari».

«Come ora, o brahmano, bene ti pare».

Sette regole imperiture

Quindi ora Vassakâra, primo ministro di Mâgadha, rallegrato e appagato dalla parola del Sublime, s’alzò dal suo posto e se ne andò. E appena se ne fu andato, il Sublime si rivolse al venerabile Ânanda: «Va’ tu, Ânanda, e quanti monaci dimorano presso Râjagaha, falli tutti raccogliere nella sala delle adunanze». Il venerabile Ânanda mise in atto puntualmente la disposizione e quindi si recò dal Sublime, annunziandogli: «Riunita, o signore, è la comunità dei monaci: come ora al Sublime bene pare». Quindi ora il Sublime si recò alla sala delle riunioni, prese posto sull’offerto sedile e si rivolse ai monaci:

«Sette regole imperiture, o monaci, voglio esporvi: ascoltate e fate bene attenzione a quel che vi dirò. Fin quando i monaci si riuniranno spesso, avranno frequenti adunanze; fin quando si aduneranno concordi, si scioglieranno concordi, adempiranno concordi i loro affari; fin quando non prescriveranno nuove regole, non aboliranno le antiche regole e si manterranno fedeli alle loro antiche regole tradizionali; fin quando stimeranno, pregeranno, rispetteranno ed onoreranno i monaci anziani, esperti, provetti, i maestri, i padri, le guide dell’Ordine, e ne ascolteranno i consigli; fin quando non abboccheranno avidi alla sete dell’esistenza; fin quando risiederanno volentieri in selve solitarie; fin quando cureranno la consapevolezza, sí da attrarre i santi pellegrini, vicini e lontani: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.

«Ed altre sette regole imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci non si compiaceranno, non si occuperanno e non si affaccenderanno in affari; fin quando non si compiaceranno, non si occuperanno e non si affaccenderanno in chiacchiere; fin quando non si compiaceranno, non si adageranno e non si prolungheranno nel sonno; fin quando non si compiaceranno, non si rallegreranno e non si divertiranno nella società; fin quando non coveranno, non nutriranno e non coltiveranno cattivi desideri; fin quando non avranno cattivi amici, cattivi compagni, cattivi intimi; fin quando non saranno soddisfatti dal conseguimento di un piccolo risultato: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.

«Ed altre sette regole imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci saranno fiduciosi, prudenti, scrupolosi, dediti a imparare, energici, presenti e consapevoli: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.

«Ed altre sette regole imperiture, o monaci, voglio ancora mostrarvi. Fin quando i monaci coltiveranno il risveglio della consapevolezza, il risveglio dell’esame degli stati mentali, il risveglio dell’energia, il risveglio della beatitudine, il risveglio della calma, il risveglio della concentrazione, il risveglio dell’equanimità: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.

«Ed altre sette regole imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci saranno consapevoli dell’impermanenza della coscienza, dell’impersonalità della coscienza, dell’impurità della coscienza, della miseria della coscienza, del lasciar andare la coscienza, del rivolgimento della coscienza, del dissolvimento della coscienza: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.

«Ed altre regole imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci si assoceranno ai fratelli dell’Ordine con opere, parole e pensieri amorevoli, sia palesi che occulti; fin quando divideranno equamente con essi il cibo mendicato; fin quando conserveranno insieme intatti i principii di rettitudine liberamente scelti, intelligentemente provati, atti al raccoglimento; fin quando serberanno insieme quella nobile, santa conoscenza, che apporta al conoscitore la cessazione di ogni dolore: fin tanto c’è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire».

Dopo questo discorso il Sublime, dimorando ancora nella montagna del Picco del Vulture, rivolse ai monaci questa istruttiva allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

Il ruggito di Sâriputta

Ora dunque il Sublime, dopo essersi trattenuto ancora un certo tempo a Râjagaha, si recò, seguito da Ânanda e da una comitiva di monaci, ad Ambalatthika, ed ivi, dimorando nel padiglione reale, ripetè ai monaci l’allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

Quindi ora il Sublime, seguito da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, si partí da Ambalatthika e si recò a Nâlanda, prendendo dimora nel bosco di manghi là presso. Ed ecco che il venerabile Sâriputta venne là, dove stava il Sublime, salutò riverentemente il Sublime e gli si sedette accanto. Accanto seduto, il venerabile Sâriputta disse ora al Sublime cosí:

«Io sono sicuro, o signore, che non vi fu, non vi sarà e non v’è ora altro asceta o sacerdote, che sia piú del Sublime ricco d’illuminata saggezza».

«Reboante, Sâriputta, è questa sentenza, da te pronunziata, semplicemente affermata e fatta risuonare come il ruggito di un leone: “Non vi fu, non vi sarà e non v’è ora altro asceta o sacerdote piú ricco del Sublime in illuminata sapienza”. Come dunque, Sâriputta: quelli, che furono nel passato santi, perfetti Svegliati; quelli, che saranno nel futuro santi, perfetti Svegliati; ed io, che sono ora santo, perfetto Svegliato; tutti tu li hai nel tuo spirito compresi e conosciuti a fondo: “Cosí hanno vissuto, vivono e vivranno tali Sublimi, cosí hanno insegnato, insegneranno ed insegnano, cosí hanno saputo, sapranno e sanno, cosí si sono redenti, si redimeranno e si redimono, cosí e cosí”?».

«Questo certo no, o signore».

«Perché mai dunque, Sâriputta, tu ora proprio qui hai pronunziato quella reboante sentenza, semplicemente affermandola e facendola risuonare come il ruggito di un leone?».

«Certo, o signore, io non ho compreso e conosciuto a fondo tutti i santi, perfetti Svegliati del passato, del futuro e del presente: ma ho conosciuto il corso del Dhamma. Mi servo di un paragone. Cosí come quasi, o signore, se ai confini del regno vi fosse un castello con solido vallo, solide mura ed una sola porta; e il guardiano della porta, facendo la ronda, osservasse che non vi fosse nelle mura la piú piccola fessura o frattura, per la quale potesse anche un gatto passare, e concludesse: “Chiunque voglia uscire o entrare in questo castello deve passare solo per questa porta”; or cosí anche appunto, o signore, io ho conseguentemente conosciuto: tutti i santi, perfetti Svegliati del passato, del futuro e del presente, si sono sciolti dai cinque impedimenti, si sono detersi delle scorie dell’animo, hanno basato la mente sui quattro fondamenti della presenza mentale, hanno realizzato i sette fattori di risveglio e si sono svegliati nell’incomparabile perfetto risveglio».

Dopo di che il Sublime rivolse di nuovo ai monaci l’allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

Discorso ai laici di Pâtali e profezia sulla loro città

Ora il Sublime, dopo essere stato alquanto a Nâlanda, si avviò, seguito da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, verso il villaggio di Pâtali. Ed i seguaci di Pâtali sentirono che il Sublime era giunto presso il loro villaggio, si recarono là dove egli dimorava, lo salutarono riverentemente e lo pregarono di onorare della sua visita la casa comunale. Ottenutone l’assenso, si recarono alla casa, ne coprirono di stuoie il pavimento, apparecchiarono le sedie, il vaso con l’acqua, per lavare i piedi, e la lampada, e quindi annunziarono al Sublime che tutto era pronto.

Ed il Sublime verso sera si approntò, prese mantello e scodella e si recò coi monaci alla casa comunale. Là giunto, si lavò i piedi, entrò nella sala e si sedette presso il pilastro di mezzo, rivolto a Oriente; ed i monaci, lavatisi i piedi, ed entrati nella sala, si sedettero addossati alla parete occidentale, rivolti a Oriente, alle spalle del Sublime; ed i seguaci di Pâtali, lavatisi i piedi ed entrati nella sala, si sedettero addossati alla parete orientale, rivolti a Occidente, di fronte al Sublime. E il Sublime parlò ai seguaci del villaggio di Pâtali:

«Cinque svantaggi, o padri di famiglia, toccano al negligente, che devia dalla rettitudine: egli va incontro alla perdita degli averi; acquista cattiva fama; appare con volto preoccupato e con aria depressa nelle riunioni dei nobili, dei sacerdoti, dei laici e degli asceti; muore con lo spirito turbato; e con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, scende giú, su cattivi sentieri, in mondo infernale. Cinque vantaggi invece toccano ad un virtuoso, che segue la rettitudine: va incontro all’aumento degli averi; acquista buon nome; appare con volto sereno e con aria disinvolta nelle riunioni dei nobili, dei sacerdoti, dei laici e degli asceti; muore con lo spirito non turbato; e con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, sale su, su buoni sentieri, in mondo celeste».

Dopo queste parole il Sublime continuò a trattenere, rallegrare, sollevare e rasserenare i seguaci di Pâtali con istruttivo colloquio, e quindi disse: «È inoltrata la notte, o padri di famiglia: come ora bene vi pare». E i seguaci di Pâtali allora si alzarono, salutarono riverentemente il Sublime, girarono verso destra e si allontanarono. Dopo che essi si furono allontanati, il Sublime si ritirò in una cella vuota.

Ora in quel tempo Sunîdha e Vassakâra, i ministri di Mâgadha, facevano costruire fortificazioni presso Pâtali, contro i Vajjî: e grandi erano ivi la moltitudine dei lavoratori e il fervore delle opere. E il Sublime, all’alba, prima del sorgere del sole, uscí dalla cella e disse ad Ânanda:

«Per quanto, Ânanda, si stende questa nobile sede e s’incrociano queste grandi strade commerciali, sorgerà una grande capitale, Pâtaliputta, alla confluenza dei fiumi. Ma anche su Pâtaliputta incombono tre pericoli: il fuoco, l’acqua, la guerra».

E Sunîdha e Vassakâra, i ministri di Mâgadha, si recarono ora dal Sublime, lo salutarono riverentemente, scambiarono con lui amichevoli parole e lo pregarono di accettare coi monaci un invito a pranzo presso di loro. Il Sublime assentí col silenzio. E Sunîdha e Vassakâra, lieti dell’assenso del Sublime, ritornarono alla loro dimora, fecero apparecchiare in una sala scelti cibi, solidi e liquidi, e mandarono un messo al Sublime, per annunziargli che tutto era pronto. Ed il Sublime, prima di mezzogiorno, prese mantello e scodella e, seguito dai monaci, si recò alla casa di Sunîdha e Vassakâra, dove prese posto sull’offerto sedile, mentre i due ministri servivano di propria mano il Sublime ed i discepoli. E quando questi ebbero finito di mangiare, Sunîdha e Vassakâra presero due sedie piú basse e si sedettero accanto al Sublime. Il Sublime recitò loro questi versi:

«Il saggio, dovunque abbia preso dimora,
là accoglie chi è santo e virtuoso;
e quel che in essi di divino egli scorge, quello in essi riverisce ed onora,
e pertanto li ama come madre i figlioli; e quelli, sí amati, saranno per sempre salvati».

E quando il Sublime con questi versi ebbe confortato e rallegrato Sunîdha e Vassakâra, i ministri di Mâgadha, si alzò dal suo posto e se n’andò. Ma Sunîdha e Vassakâra seguirono dappresso il Sublime, pensando: «Per quale porta oggi l’asceta Gôtama uscirà dalla città, quella si chiamerà porta di Gôtama; per quale traghetto oggi l’asceta Gôtama traverserà il fiume Gange, quello si chiamerà traghetto di Gôtama». E la porta, per la quale il Sublime sortí, si chiamò porta di Gôtama. Quindi Gôtama giunse al fiume Gange, che era allora in piena, sí che l’acqua sfiorava le sponde, sorbibile dai corvi. Ed il Sublime vide le genti, di cui alcune montavano in barca, altre su scafo ed altre su zattera, per passare all’altra sponda, ed a quella vista, traendo un profondo sospiro, disse questo detto:

«Coloro che devono passare fiumi e mari,
ponti e barche e navigli si fanno:
solo, sul filo dell’onda,
il saggio se ne va all’altra sponda».


SECONDA PARTE

Le quattro nobili verità

Dopo aver dunque passato il Gange, il Sublime si diresse coi monaci al villaggio Koti, dove dimorando egli tenne loro questo discorso:

«Siccome finora, o monaci, non si erano riconosciute e comprese le quattro nobili verità del dolore, dell’origine del dolore, della fine del dolore e della via che porta alla fine del dolore: perciò appunto, o monaci, è stato finora girato e percorso, da me come da voi, questo lungo cammino. Ora però sono state riconosciute e comprese le quattro nobili verità, è stata recisa la radice dell’esistenza, esaurita la sete di esistenza non c’è piú ritorno all’esistenza».

Questo disse il Sublime. Quando il Tathagata ebbe detto ciò, disse ancora il Maestro:

«Non riconoscendo conformi a realtà le quattro nobili verità, si percorre il lungo cammino, esistenza per esistenza. Ma, riconosciutele, tagliata la vena dell’esistenza recisa la radice del dolore, non c’è piú ritorno all’esistenza».

E, dimorando ancora a Koti, il Sublime rivolse di nuovo ai monaci l’allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione, unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza, unita alla concentrazione, è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza, è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

«Quale sorte dopo la morte?»

Dopo essersi fermato alquanto a Koti, il Sublime si diresse con i monaci a Nâdika, dove prese dimora nella casa di mattoni. Là ora Ânanda annunziò al Sublime, che diversi monaci e monache e seguaci dei due sessi erano morti a Nâdika, e gli chiese che cosa fosse avvenuto di essi dopo la loro morte. E il Sublime, dopo aver parlato delle loro diverse sorti dopo morte, corrispondenti alle qualità spirituali da essi sviluppate durante le loro vite, aggiunse:

«Nessuna meraviglia, Ânanda, che un essere umano, fatto il suo tempo, muoia. Ma, se per ogni morto voi vi presentaste a chiederne l’esito al Sublime, ciò sarebbe, Ânanda, un fastidio per il Sublime. Vogliate perciò mirare nello specchio del Dhamma, perché, scorgendo in esso quali sono le qualità buone e le cattive di ciascun essere, possiate comprenderne l’esito dopo la morte».

E quindi ripetè ai monaci l’allocuzione: «Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

«Il monaco sia attento e consapevole»

Dopo la sosta presso Nâdika, il Sublime, seguito da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, si diresse alla città di Vesâli presso la quale prese dimora nel parco di manghi di Ambapâli. Là il Sublime disse ai monaci cosí:

«Attento sia il monaco e consapevole: questo ritenete, o monaci, come nostro insegnamento. E come, o monaci, il monaco è attento? Ecco, o monaci, il monaco, dopo aver rigettato brame e cure mondane, vigila attento presso il corpo sul corpo, presso le sensazioni sulle sensazioni, presso la mente sulla mente, presso gli oggetti mentali sugli oggetti mentali: cosí il monaco è attento. E come il monaco è consapevole? Egli resta consapevole nell’andare e nel venire, nel guardare e nel non guardare, nell’inchinarsi e nel sollevarsi, nel portare l’abito e la scodella dell’elemosina, nel mangiare e nel bere, nel masticare e nel gustare, nel vuotarsi di feci e di urina, nel camminare e nello stare e nel sedere, nell’addormentarsi e nel destarsi, nel parlare e nel tacere: cosí il monaco è consapevole. Attento sia il monaco e consapevole: questo ritenete, o monaci, come nostro insegnamento».

La cortigiana Ambapâli

Intanto Ambapâli la cortigiana, avendo sentito dire che il Sublime era giunto a Vesâli e s’era fermato nel suo parco di manghi, fece subito aggiogare bellissimi carri, montò sopra uno di essi e, seguita dagli altri, si diresse verso il suo parco, procedendo cosí fin dove la via permetteva; poi smontò e si diresse a piedi là, dove dimorava il Sublime. Là giunta, salutò riverentemente il Sublime e si sedette da parte. Ed Ambapâli la cortigiana, dopo essere stata dal Sublime confortata, rallegrata, sollevata e rasserenata con istruttivo colloquio, rivolse al Sublime la preghiera, di volere l’indomani insieme con i monaci mangiare presso di lei. Il Sublime assentí col silenzio. E quando Ambapâli ebbe ottenuto l’assenso del Sublime, si alzò, salutò riverentemente il Sublime e se ne andò.

Intanto però anche i principi Licchavi di Vesâli avevano appreso dell’arrivo del Sublime ed erano usciti con grande pompa dalla città, con i vestiti, gli ornamenti e gli equipaggi, nei colori speciali delle loro famiglie: quali in azzurro, quali in giallo, quali in rosso, quali in bianco: e mentre cosí correvano con i loro carri verso il bosco di manghi, vennero a sfiorare, asse contro asse, ruota contro ruota, giogo contro giogo, i carri di ritorno di Ambapâli, e le gridarono:

«Ehi, Ambapâli, donde ne vieni cosí lieta e veloce?».

«Vengo, o nobili giovani, dal Sublime, che ha accettato, di venire domani a pranzo da me con i suoi monaci».

«Dà a noi, Ambapâli, l’onore di tale pranzo, per centomila denari».

«Se anche, nobili giovani, mi deste tutta Vesâli con le sue entrate, non vi cederei un pranzo cosí grandioso».

Allora quei principi Licchavi fecero schioccare le dita, esclamando: «Ce l’ha fatta, veramente, la fanciulla dei manghi, ci ha vinto, or vedete, la signora dei manghi!».

Continuarono quindi la loro corsa verso il bosco di manghi, si avanzarono con tutta la loro magnificenza verso il Sublime, lo salutarono riverentemente, si sedettero accanto a lui, furono anch’essi da lui confortati e sollevati con istruttivo colloquio e gli chiesero l’onore di accettare l’indomani il pranzo da loro. Ma il Sublime rispose, che aveva già accettato l’invito di Ambapâli. Allora i principi Licchavi, rallegrati ed appagati dal discorso del Sublime, si alzarono dai loro posti, salutarono riverentemente il Sublime, gli girarono sulla destra intorno e si allontanarono.

Intanto Ambapâli la cortigiana il mattino seguente fece apparecchiare nel suo giardino scelti cibi, solidi e liquidi, e mandò un messo al Sublime, con l’annunzio che tutto era pronto. E il Sublime, approntatosi per tempo, prese mantello e scodella e si recò con i monaci là, dove Ambapâli aveva apprestato il ricevimento. Là giunto il Sublime si sedette al posto assegnatogli, ed Ambapâli serví di propria mano lui ed i monaci. Dopo che il Sublime ebbe mangiato, Ambapâli si sedette accanto in un posto piú basso e disse al Sublime cosí: «Questo giardino, o signore, io lo dono allo Svegliato e al suo Ordine di mendicanti».

Il Sublime accettò la donazione del giardino. Quindi, dopo avere confortato, rallegrato, sollevato e rasserenato Ambapâli la cortigiana con istruttivo colloquio, il Sublime si alzò dal suo posto e se n’andò.

Continuò intanto il Sublime a trattenersi nei dintorni di Vesâli, tenendo ai monaci istruttivi discorsi, prima nel parco di Ambapâli e poi nel casale di Beluva. Qui ora, avvicinandosi la stagione delle piogge, il Sublime disse ai monaci: «Andate, o monaci, e cercate possibilmente nei dintorni di Vesâli, per la stagione delle piogge, posti amichevoli, gradevoli, piacevoli: io, però, passerò qui, nel casale di Beluva, la stagione delle piogge».

«Siate rifugio a voi stessi»

Ora durante la stagione delle piogge il Sublime fu colpito da grave malattia, con forti, mortali dolori che egli sopportò con pazienza e con chiara coscienza e che superò e vinse con forza di volontà pensando che non doveva morire, prima di aver visto ancora una volta i discepoli piú vicini e ripetuto loro le sue istruzioni. Quindi ora, quando il male si fu dileguato, il Sublime uscí dall’eremo e si sedette dietro il muro occidentale, all’ombra. E il venerabile Ânanda s’accostò ora al Sublime, lo salutò riverentemente, gli si sedette accanto e disse al Sublime cosí:

«Ho visto, o signore, che il Sublime sta meglio, che il Sublime è guarito. Durante la malattia del Sublime, o signore, io mi sentivo venir meno e non ero piú in grado di pensare. Ma mi confortava il pensiero, che il Sublime non si sarebbe spento prima di aver detto qualche cosa riguardo all’Ordine dei mendicanti». «Ma che chiede, Ânanda, l’Ordine ancora da me? Esposto è stato da me il Dhamma, senza farne uno essoterico ed uno esoterico. Non c’è nell’insegnamento del Sublime nulla che sia rimasto nel “pugno chiuso del maestro”. Chi pensasse, di dover ancora guidare l’Ordine o che l’Ordine resti ancora a lui affidato, quegli dovrebbe dire ancora qualche cosa all’Ordine. Ma il Sublime non ha di tali pensieri: che dovrebbe dunque il Sublime ancora dire all’Ordine dei mendicanti? Io ora, Ânanda, sono divenuto vecchio, anziano, ho fatto il mio tempo, ho raggiunto grave età, sono nell’ottantesimo anno d’età. Cosí come quasi, Ânanda, un vecchio carro si muove a fatica, or cosí anche appunto a fatica si muove il corpo del Sublime. Solo quando il Sublime, avendo tolto dalla mente tutte le rappresentazioni, essendosi liberato da ciascuna sensazione, ha raggiunto il raccoglimento della mente senza rappresentazioni: solo allora, Ânanda, il corpo del Sublime si sente bene.

«Perciò, Ânanda, siate luce a voi stessi, siate rifugio a voi stessi, senz’altro rifugio: il Dhamma sia luce, il Dhamma sia rifugio, senza altro rifugio. E come, Ânanda, il monaco è luce a sé stesso, rifugio a sé stesso, senza altro rifugio: il Dhamma gli è luce, il Dhamma rifugio, senza altro rifugio?

«Ecco, Ânanda, il monaco, avendo superato brame e cure mondane, vigila instancabile, con chiara mente, cosciente, presso il corpo sul corpo, presso le sensazioni sulle sensazioni, presso la mente sulla mente, presso gli oggetti mentali sugli oggetti mentali. In tal modo, Ânanda, il monaco è luce a se stesso, rifugio a se stesso, senza altro rifugio: il Dhamma gli è luce, il Dhamma rifugio, senza altro rifugio. Quelli che ora, Ânanda, dopo la mia dipartita, saranno luce a se stessi, rifugio a se stessi, senza altro rifugio; ai quali il Dhamma sarà luce, il Dhamma rifugio, senza altro rifugio: costoro, Ânanda, con tale visione, cosí amando l’esercizio, saranno monaci per me».

 


TERZA PARTE

L’ultima tentazione

Qualche giorno dopo questo dialogo, il Sublime, una mattina, pronto per tempo, prese mantello e scodella e si recò a Vesâli per l’elemosina. Dopo la questua mangiò il cibo mendicato e quindi, insieme con Ânanda, si recò presso il tumulo di Câpâla, per passarvi il resto del giorno. Là stando seduto, egli fece ammirare ad Ânanda la bellezza di Vesâlí, con i suoi incantevoli dintorni, tutti sparsi di giardini, di monumenti e di parchi. Nella contemplazione di tanta bellezza sorse in lui il pensiero che forse valeva la pena, di continuare a vivere e continuare la sua opera, per il bene di molti, per la salvezza di molti, per utile e compassione del mondo. Ma ciò gli apparve subito come un’attrazione del mondo, come una tentazione di Mâra il maligno, lo spirito del mondo, come una seduzione della natura, ed egli respinse quel pensiero della durata, decidendo che non piú tardi di tre mesi si sarebbe estinto. Con l’abbandono del pensiero della durata, un fremito passò per tutto l’universo, ed il Sublime fece allora intendere questo detto:

«Il saggio s’è staccato da ogni esistenza, da ogni elemento dell’esistenza:
in sé beato, raccolto, egli ha infranto come cotta di maglia la propria esistenza».

Allora il venerabile Ânanda espresse al Sublime l’augurio e il voto che potesse ancora vivere a lungo, per il bene e la salvezza degli uomini, per utile e compassione del mondo. Ma il Sublime rispose:

«Non è stato già, Ânanda, prima detto proprio da me, che tutto ciò che è caro ed amato, si muta, perisce, svanisce? Come dunque si può ottenere, che quel che è nato, divenuto, composto, soggetto alla dissoluzione, non si dissolva? Ciò non è concepibile. Ora il Sublime ha abbandonato il pensiero della durata e sa che tra non molto, non piú tardi di tre mesi, si estinguerà per sempre: e non può essere altrimenti. Orsú Ânanda, andiamo nell’ Eremo della Grande Selva».

Ora, stando nell’ Eremo della Grande Selva, il Sublime disse ad Ânanda di far raccogliere nella sala delle riunioni i monaci, che si trovavano nei dintorni di Vesâli. Quando i monaci si furono là raccolti, il Sublime si recò nella sala, si sedette e disse loro cosí: «Quelle cose, o monaci, che vi sono state da me esposte ed insegnate, voi dovrete serbarle, guardarle, esercitarle e curarle, affinché la nobile vita duri e prosperi, per il bene e la salvezza degli uomini, per utile e compassione del mondo. Quali sono queste cose? Esse sono: i quattro fondamenti della presenza mentale, i quattro sforzi, le quattro vie del potere, le cinque facoltà spirituali, i cinque poteri mentali, i sette fattori di risveglio, il nobile ottuplice sentiero. Orsú dunque, o monaci, io vi esorto: periture son tutte le cose, lottate instancabilmente. Tra non molto il Compiuto sarà completamente estinto.

Cosí disse il Sublime. Quando il Benvenuto ebbe detto ciò, disse ancora questo, il Maestro:

«Indefinibile e ignota è la vita dei mortali, torbida e breve e avvolta nel dolore.
Chiunque nasca perviene alla morte:
questa è la sorte di tutti i mortali.
Come i frutti maturi cadono a terra,
cosí i nati mortali cadono nella morte.
Come i vasi del vasaio, belli e brutti, crudi o cotti,
finiscono tutti per rompersi:
tale è pur la nostra vita, se siam belli o siam brutti, giovani e vecchi, stolti e saggi, ricchi e poveri, tutti sono soggetti alla morte.
Compiuto è il mio tempo, tramonta la mia vita: vi lascio e mi ritiro, prendendo rifugio in me stesso. Siate, o monaci, instancabili, consapevoli, virtuosi, raccolti nella retta intenzione, vigilate sulla vostra mente. Chi instancabile perdurerà in questo insegnamento e disciplina, lasciando il turbine delle nascite, porrà fine al dolore».


QUARTA PARTE

Ultime peregrinazioni

Dopo qualche giorno il Sublime, levatosi di buon’ora, prese mantello e scodella e si recò a Vesâli per l’elemosina. Quindi, uscito dalla città, dopo aver mangiato il cibo avuto in elemosina, guardò Vesâli con lo sguardo dell’elefante e disse ad Ânanda: «Questo, Ânanda, è l’ultimo sguardo del Compiuto su Vesâli. Andiamo, Ânanda, al villaggio di Bhanda».

Quindi il Sublime, seguito da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, procedette verso il villaggio di Bhanda, dove prese dimora. Là ora il Sublime disse di nuovo ai monaci:

«Dopo aver dunque passato il Gange, il Sublime si diresse coi monaci al villaggio Koti, dove dimorando egli tenne loro questo discorso:

«Siccome finora, o monaci, non si erano riconosciute e comprese le quattro nobili verità del dolore, dell’origine del dolore, della fine del dolore e della via che porta alla fine del dolore: perciò appunto, o monaci, è stato finora girato e percorso, da me come da voi, questo lungo cammino. Ora però sono state riconosciute e comprese le quattro nobili verità, è stata recisa la radice dell’esistenza, esaurita la sete di esistenza non c’è piú ritorno all’esistenza». Questo disse il Sublime. Quando il Benvenuto ebbe detto ciò, disse ancora questo, il Maestro: «Rettitudine, concentrazione, saggezza e liberazione: queste cose le ha Gôtama comprese,ed avendole comprese le ha insegnate ai monaci: il Veggente, il Maestro, che ha messo fine al dolore si estingue».

Quando ebbe detto ciò, il Sublime ripetè ancora una volta ai monaci l’allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

Ora il Sublime, dopo essersi trattenuto alquanto nel villaggio di Bhanda, volle procedere ancora verso settentrione e, passando per Hatthigâma [villaggio dell’elefante, N.d.T], per Ambagâma [villaggio del mango, N.d.T] e per Jambugâma [villaggio della melarosa, N.d.T], giunse alla città di Bhoga, presso cui prese dimora, vicino al tumulo degli Anandidi. Là ora il Sublime disse ai monaci: «Quattro grandi tracce voglio, o monaci, mostrarvi: ascoltate e fate attenzione al mio discorso. Può darsi, o monaci, che un monaco, od una comunità di monaci, con i suoi superiori e anziani, conoscitori dell’insegnamento, guardiani dell’insegnamento, guardiani della disciplina, guardiani della tradizione, o anche un solo vecchio monaco di grande esperienza, di grande conoscenza, dicano cosí: “Abbiamo personalmente sentito, che questo è l’insegnamento, questa è la disciplina, questa è la lezione del Maestro”. Una tale dichiarazione, o monaci, non è da approvare né da disapprovare; senza approvarla né disapprovarla, bisogna notarsene le proposizioni e cercarne la conferma nei discorsi del Maestro, la prova nel codice di disciplina dell’Ordine. Se tale conferma e tale prova non si trovano, allora bisogna concluderne, che quella non è la parola del Sublime, o che è stata mal compresa da quei monaci. Se invece tale conferma e tale prova vi si trovano, allora bisogna concluderne che quella è sicuramente la parola del Sublime e che essa è stata ben compresa da quei monaci. Queste grandi tracce vogliate voi, o monaci, ben conservare.

Quindi ora il Sublime, trattenendosi ancora presso la città di Bhoga, al monumento degli Anandidi, ripetè ancora una volta ai monaci l’allocuzione:

«Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall’influsso della libidine, dall’influsso dell’essere, dall’influsso dell’opinione, dall’influsso dell’ignoranza».

Il pranzo avvelenato

Ora il Sublime, dopo aver sostato per poco a Bhoga, si diresse con Ânanda e con i monaci a Pâvâ e prese ivi dimora nel bosco di manghi di Cunda, l’orefice.

Ora quando Cunda l’orefice sentí, che il Sublime aveva preso dimora nel suo bosco di manghi, si recò subito là, salutò il Sublime riverentemente e gli si sedette accanto. E il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e rasserenò Cunda l’orefice con istruttivo colloquio. Finito il colloquio, Cunda l’orefice pregò il Sublime, di fargli l’onore di pranzare l’indomani insieme con i monaci da lui. Il Sublime assenti col silenzio. Quando ora Cunda l’orefice ebbe ottenuto l’assenso del Sublime, salutò il Sublime riverentemente, gli girò a destra intorno e se ne andò. E l’indomani mattina Cunda l’orefice fece apparecchiare nella sua casa scelti cibi, tra cui una pietanza di funghi porcini e fece annunziare al Sublime che tutto era pronto. E il Sublime prima di mezzogiorno si approntò, prese mantello e scodella e si recò insieme con i monaci alla casa di Cunda l’orefice. Là giunto il Sublime si sedette al posto preparatogli e quindi disse a Cunda:

«Quel che da te, Cunda, è stato preparato coi funghi porcini, quello servilo a me: degli altri cibi preparati, solidi e liquidi, servi i monaci».

«Sí, signore!» rispose Cunda e, obbedendo al Sublime, serví al Sublime i funghi porcini, e ai monaci gli altri cibi preparati.

Quindi ora il Sublime disse a Cunda l’orefice:

«Quel che, o Cunda, ti è rimasto di funghi porcini, gettalo nella fogna: perché io non vedo alcuno al mondo, da cui quel cibo possa essere mangiato e digerito, tranne che dal Compiuto».

«Sí, signore! » rispose Cunda al Sublime. Fece gettare nella fogna quel che era rimasto di funghi porcini, s’inchinò quindi riverentemente al Sublime e gli si sedette accanto. Quindi il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e rasserenò con istruttivo colloquio Cunda l’orefice, che gli sedeva accanto, poi si alzò dal suo posto e se ne andò.

Ora al Sublime, dopo aver mangiato quel cibo di Cunda l’orefice, sopravvenne grave malore, dissenteria, con forti, mortali dolori. Questi pure il Sublime sopportò sereno e consapevole, senza turbarsi.

Quindi ora il Sublime disse ad Ânanda:

«Andiamo, Ânanda, a Kusinâra».

«Sí, signore!» rispose Ânanda, seguendo il Sublime.

L’acqua torbida diviene limpida

Ho sentito che il saggio, dopo aver pranzato da Cunda, fu colpito da un grave mortale malore. A causa dei funghi mangiati il Maestro fu attaccato da morbo: ma, rimessosi alquanto, il Sublime riprese il cammino. Durante il cammino, però, il Sublime deviò dalla strada e, fermandosi al piede di un albero, disse ad Ânanda:

«Di grazia, Ânanda, stendimi in terra il mantello piegato in quattro: sono stanco, Ânanda, e voglio sedermi».

«Sí, signore!» rispose Ânanda, obbedendo al Sublime, e stese a terra il mantello piegato in quattro.

Il Sublime si sedette sul posto apparecchiato e disse ad Ânanda:

«Di grazia, Ânanda, portami un poco d’acqua: ho sete, Ânanda, e vorrei bere».

A queste parole il venerabile Ânanda rispose al Sublime cosí:

«Adesso, o signore, cinquecento carri sono passati di qua: traversata dalle ruote l’acqua scorre torbida e fangosa. Ma qui presso, o signore, scorre la Kakutthâ, con acqua chiara, fresca, dolce, pura, facilmente accessibile, deliziosa: là il Sublime potrà bere e anche rinfrescare le membra».

Ma di nuovo il Sublime disse ad Ânanda:

«Di grazia, Ânanda, dammi un poco d’acqua: ho sete, Ânanda, e voglio bere».

Allora Ânanda prese la scodella e scese al ruscello. E quell’acqua, già intorbidata dal passaggio dei carri, era ora divenuta limpida e pura, sí che Ânanda poté riempirne la scodella e portarla al Sublime. E il Sublime bevve l’acqua.

Pukkusa Mallâputta

Ora, in quel mentre, passava lungo la strada Pukkusa Mallâputta, un discepolo di Âlâra Kalâma, che si recava da Kusinâra a Pâvâ. E Pukkusa Mallâputta vide il Sublime seduto al piede dell’albero, si diresse verso di lui, lo salutò riverentemente e gli si sedette accanto. Accanto seduto, Pukkusa Mallâputta disse questo al Sublime:

«È meravigliosa, o signore, è davvero straordinaria, o signore, la pace, in cui possono chiudersi quelli che si sono distaccati dal mondo! Una volta, o signore, Âlâra Kalâma s’era scostato dalla strada, che stava percorrendo, e s’era seduto al piede d’un albero, per restarvi fino alla sera. Durante quel tempo passò per la strada, innanzi ad Âlâra Kalâma, una carovana di cinquecento carri. E un ritardatario che si affrettava per raggiungerla, chiese ad Âlâra Kalâma se l’avesse vista passare. “No, amico, non 1’ ho vista”. “Ma ne hai sentito il rumore?”. “Non ne ho sentito il rumore”. “Allora dormivi?”. “No, amico, non dormivo”. “Ma eri in te stesso?” “Ma sí, amico”. “Allora tu, signore, essendo cosciente e desto, non hai visto né sentito i cinquecento carri che certo sono passati di qui: eppure il tuo vestito è coperto della polvere, da essi sollevata”. “Evidentemente, amico”. Allora quell’uomo restò sorpreso e meravigliato della profonda pace in cui possono rinchiudersi gli asceti ed esprimendo la sua ammirazione per Âlâra Kalâma, proseguí il suo cammino».

«Che pensi però, Pukkusa Mallâputta, che sia piú difficile da effettuare, piú difficile da conseguire: che uno, cosciente e desto, non veda e non senta cinquecento carri, che gli passino innanzi; o che uno, cosciente e desto, sotto il cielo scrosciante di pioggia e lampeggiante, tra il rombare dei tuoni ed il fragore dei fulmini, nulla veda né senta?».

«Che sono, o signore, la vista ed il rumore di cinquecento, o anche mille carri, in confronto di un cielo in tempesta, tra il guizzare dei lampi e il rombare dei tuoni?».

«Una volta, Pukkusa Mallâputta, mentre io dimoravo presso Âtuma, in un pagliaio, e dal cielo scrosciava la pioggia in tempesta e guizzavano i lampi e rombavano i tuoni, presso il pagliaio rimasero fulminati due fratelli aratori e quattro buoi da aratro. Allora una grande folla di gente venne da Âtuma e si raccolse intorno ai due aratori ed ai quattro buoi uccisi. Intanto io, essendo uscito dal pagliaio, camminavo su e giú all’aperto innanzi alla porta di esso. Intanto, un uomo di quella folla, avendomi salutato ed essendomisi avvicinato, io gli chiesi perché si fosse raccolta tutta quella gente. “Qui, o signore, mentre infuriava l’uragano, sono rimasti fulminati due aratori e quattro buoi: perciò si è radunata tutta questa folla. Ma tu, o signore, dove eri?” “Io ero, amico, proprio qui”. “Allora dunque, o signore, hai visto?”. “Non ho visto proprio nulla”. “Ma hai sentito certo lo scoppio!”. “No, non l’ho sentito”. “Ma allora, o signore, tu dormivi?”. “No, amico, io non dormivo”. “Ma eri, o signore, cosciente?”. “Ma sí, amico, che ero cosciente”. “Allora tu, o signore, essendo cosciente e desto, mentre infuriava quella tempesta di acqua, fulmini e tuoni, non hai visto e sentito nulla?”. Allora quell’uomo, Pukkusa Mallâputta, pensò: “È meravigliosa davvero, è sorprendente la profonda pace, in cui si rinchiudono questi distaccati dal mondo: tale che, essendo essi coscienti e desti, non si accorgono del bagliore e del fragore di una simile tempesta!”. E, manifestando grande ammirazione per me, mi girò a destra intorno e se n’andò».

Dopo queste parole, Pukkusa Mallâputta disse al Sublime cosí:

«Ora, o signore, quella mia ammirazione per Âlâra Kalâma io voglio spargerla al vento e gettarla nella rapida corrente del fiume. Benissimo, o signore, benissimo, o signore; cosí come quasi, o signore, se uno raddrizzasse ciò che è rovesciato, o svelasse ciò che è celato, o mostrasse la via a sviati, o portasse luce nell’oscurità, in modo che chi ha occhi possa vedere le cose: or cosí anche appunto il Dhamma mi è stato in varia guisa mostrato dal Sublime. E cosí, o signore, io prendo rifugio nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha dei mendicanti: come seguace voglia il Sublime considerarmi, da oggi per la vita fedele».

Quindi ora Pukkusa Mallâputta, si volse a una persona del suo seguito:

«Orsú, portami tu quel paio di veli a trama d’oro».

«Sí, signore!» rispose quell’uomo, obbedendo al nobile giovane Pukkusa Mallâputta, e gli portò il paio di veli a trama d’oro. E Pukkusa Mallâputta offrí al Sublime quel paio di veli a trama d’oro, pregandolo di accettarli, mosso da compassione.

E il Sublime rispose:

«Di codesti due veli, Pukkusa Mallâputta, con uno copri me, con l’altro Ânanda.» E Pukkusa Mallâputta, coprí con uno dei due veli il Sublime e con l’altro il venerabile Ânanda. Quindi ora il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e rasserenò Pukkusa Mallâputta, con istruttivo colloquio. E Pukkusa Mallâputta, rallegrato e appagato dal discorso del Sublime, si alzò dal suo posto, salutò riverentemente il Sublime, gli girò a destra intorno e si allontanò. Ora, non molto tempo dopo che Pukkusa Mallâputta era andato via, il venerabile Ânanda, acconciando intorno al corpo del Sublime quel velo aureo, esso apparve come senza splendore. E il venerabile Ânanda disse:

«È mirabile, o signore, è straordinario, o signore, come il colore della pelle del Sublime sia cosí puro e splendente, che quel velo d’oro, messo addosso al Sublime, pare che abbia perduto ogni splendore!». «Cosí è, Ânanda. Due volte, Ânanda, avviene, che la pelle del corpo del Compiuto appaia cosí pura e splendente: la notte, nella quale il Compiuto s’è destato nell’incomparabile, perfetto risveglio; e la notte, nella quale egli senza piú attaccamento si estingue in totale estinzione. Oggi dunque, Ânanda, nelle ultime ore della notte, nella terra di Kusinâra, nel bosco di sâla [shorea robusta, N.d.R.] dei Mallâ, tra due alberi di sâla, avverrà la totale estinzione del Compiuto. Ed ora, Ânanda, andiamo all’acqua del fiume Kakutthâ».

«Sí, signore!» rispose Ânanda al Sublime.

Il Buddha discolpa Cunda

Quindi ora il Sublime, seguito dai monaci, discese al fiume Kakutthâ, s’immerse nell’acqua, si bagnò, bevve, e poi, uscito dal fiume, si diresse a un vicino bosco di manghi. Là giunto, il Sublime disse al venerabile Cundaka:

«Di grazia, Cundaka, stendimi in terra il mantello piegato in quattro. Sono stanco, Cundaka: vorrei adagiarmi.».

E il venerabile Cundaka stese in terra il mantello piegato in quattro. Quindi ora il Sublime si adagiò sul destro fianco, come il leone, un piede sull’altro piede, raccolto e cosciente, memore del momento di alzarsi. E il venerabile Cundaka si sedette là appunto, davanti al Sublime.

Quindi ora il Sublime disse al venerabile Ânanda: «Può darsi, Ânanda, che qualcuno faccia sorgere rimorso in Cunda l’orefice, incolpandolo di aver dato al Compiuto l’ultimo pasto, prima della sua estinzione. Bisogna rincuorarlo e fargli merito di ciò, dicendogli di aver udito dalla bocca stessa del Sublime, che due sono i pasti dati in elemosina, i quali sono meritevoli e giovevoli piú di qualsiasi altro pasto: quello dato al Compiuto prima del suo incomparabile, perfetto risveglio, e quello dato al Compiuto prima della sua totale estinzione. Con ciò Cunda l’orefice ha acquistato grande profitto, grande merito, grande gloria.» Quando ebbe detto ciò, il Sublime aggiunse:

«Chi dà, acquista merito; chi si raccoglie in sé stesso, non suscita odio; chi è intelligente, si astiene dal male; chi ha posto fine alla brama, all’avversione, all’errore, sta in pace».


QUINTA PARTE

L’ultima sosta

Quindi ora il Sublime disse al venerabile Ânanda: «Andiamo, Ânanda, verso il fiume Hiraññavati e passiamo sull’altra sponda, nella terra di Kusinâra, per fermarci nel bosco di sâla dei Mallâ».

Quindi ora il Sublime, seguito dai monaci, si diresse al fiume Hiraññavati, passò sull’altra sponda, nella terra di Kusinâra e si fermò nel bosco di sâla dei Mallâ. Là giunto il Sublime disse al venerabile Ânanda: «Di grazia, Ânanda, apparecchiami tra due alberi di sâla un giaciglio, col capo a settentrione: sono stanco, Ânanda, e voglio coricarmi».

«Sí signore!» rispose Ânanda, obbedendo al Sublime, ed apparecchiò tra due alberi di sâla un giaciglio, col capo a settentrione. E il Sublime si adagiò sul fianco destro, come il leone, un piede sull’altro piede, raccolto e cosciente.

Ora i due alberi di sâla erano allora in piena fioritura fuori stagione, e i loro fiori cadevano sul corpo del Sublime, insieme con altri fiori e con polvere di sandalo, mentre effluvi e suoni celesti si effondevano per l’aria, in gloria del Sublime. E il Sublime disse ad Ânanda:

«Or vedi, Ânanda, la festa che fa la natura in gloria del Compiuto. Ma i monaci e le monache, i seguaci e le seguaci pregiano, onorano, venerano e gloriano il Compiuto, seguendo il Dhamma, persistendo nel Dhamma, procedendo sulla retta via del Dhamma. Perciò, Ânanda, voi avete da esercitarvi seguendo il Dhamma, persistendo nel Dhamma, procedendo per la retta via del Dhamma».

«Prima, o signore, col cessare della stagione delle piogge, convenivano da tutti i lati i monaci, per vedere il Compiuto: cosí ci era concesso di vedere monaci di alta mente, e di stare al loro fianco. Ma, dopo la dipartita del Sublime, o signore, ciò non ci sarà piú concesso».

«Quattro siti vi sono, Ânanda, degni di esser visti e visitati da un nobile figlio fedele: dove il Sublime è nato, dove il Sublime s’ è destato nel supremo perfetto risveglio, dove il Sublime ha messo in moto l’incomparabile ruota del Dhamma e dove il Sublime senza attaccamento s’è spento nella totale estinzione. Questi, Ânanda, sono i quattro siti, degni d’essere visti e visitati da un nobile figlio fedele. Quelli, che andranno in pellegrinaggio a tali monumenti e moriranno con cuore puro, con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, passeranno per la buona via in mondo celeste».

Le donne

«Come dobbiamo comportarci, o signore, con le donne?».

«Non guardarle, Ânanda».

«Ma una volta viste, o signore, come dobbiamo comportarci?».

«Non parlarci, Ânanda».

«Ma, avendoci parlato, o signore, come dobbiamo comportarci?».

«Essere presenti a se stessi, Ânanda».

Istruzioni per il funerale

«Come dobbiamo regolarci, o signore, col cadavere del Compiuto?».

«Non vi occupate, Ânanda, degli onori al cadavere del Compiuto: occupatevi invece, di grazia, della vostra salvezza, lavorate per la vostra salvezza, lottate seriamente, fortemente, instancabilmente per la vostra salvezza. Vi sono, Ânanda, saggi guerrieri, saggi sacerdoti, saggi padri di famiglia, devoti al Compiuto: essi renderanno gli onori al cadavere del Compiuto».

«E come, o signore, si procede col cadavere del Compiuto?».

«Si procede, Ânanda, come col cadavere di un re guerriero: bruciandolo con tutte le regole e con tutti gli onori ed erigendo sulle sue reliquie un monumento. Quelli, che offriranno a tale monumento una corona o un fiore o un profumo, o si rivolgeranno ad esso con cuore puro: a quelli ciò riuscirà lungamente di gioia e di felicità».

Dopo queste parole il venerabile Ânanda si allontanò verso una capanna nel bosco e, appoggiandosi allo stipite della porta, stette là, piangendo:

«Ahimè, io debbo ancora esercitarmi e combattere, mentre si estingue e mi lascia il Maestro, che aveva compassione di me!». Ma il Sublime aveva chiesto ai monaci: «Dov’ è dunque Ânanda, o monaci?». «Il venerabile Ânanda, o signore, è andato alla capanna e sta là appoggiato alla porta, lamentandosi di dover restare ancora in vita a lottare, mentre si estingue e lo lascia il Maestro, che ha compassione di lui». «Va tu, o monaco, e di’ a nome mio ad Ânanda, che il Maestro chiede di lui».

E il monaco andò a chiamare il venerabile Ânanda, che ritornò verso il Sublime, s’inchinò riverentemente dinanzi a lui e gli si sedette accanto. E il Sublime gli parlò ora cosí:

«Basta, Ânanda; non rattristarti, non lamentarti. Non ti ho già detto, Ânanda, che tutto ciò che è caro ed amato, deve perire, svanire, mutarsi? Donde ora, Ânanda, può essere ottenuto, che ciò che è nato, divenuto, composto, soggetto al disfacimento, non si disfaccia? Questo non può essere. Lungamente ora, Ânanda, il Compiuto è stato da te curato, con opere, con parole, con pensieri amichevoli, amorevoli, sinceri, sconfinati: hai bene agito, Ânanda; continuando ad esercitarti, presto sarai salvo».

Dopo queste parole il venerabile Ânanda disse al Sublime cos��:

«Voglia, o signore, il Sublime non spegnersi in questo sito selvaggio, nel mezzo della boscaglia presso una città insignificante! Vi sono, o Signore, ben altre, importanti città, come dire Campa, Râjagaha, Sâvatthi, Sakyâ, Kosambi, Vâranasî; là vi sono potenti guerrieri, sacerdoti, padri di famiglia, con grandi palazzi; essi potranno rendere degni onori al cadavere del Sublime.

«Non dire cosí, Ânanda; non dire cosí Ânanda: un sito selvaggio, nel mezzo della boscaglia, presso una città insignificante! Una volta, Ânanda, v’era un re, chiamato il Mahâ Sudassana, un re giusto e verace, vincitore in tutt’e quattro i punti cardinali, il quale aveva dato sicurezza al suo regno. E questo regno, Ânanda, aveva per capitale Kusinâra, allora chiamata Kusâvatî: una grande città, ricca, popolosa, splendente, agitata giorno e notte dal decuplo rumore dei barriti degli elefanti, dei nitriti dei cavalli, del rotolare dei carri, del battere dei timpani e dei tamburi, di suoni e di canti, di gridi di gioia ed applausi e di inviti a bere, mangiare e divertirsi. Va’, Ânanda, sali a Kusinâra ed annunzia ai Mallâ di Kusinâra, che oggi, nelle ultime ore della notte, il Compiuto si spegnerà. Vogliano quindi essi qui venire, per non aver poi a provare il rimorso, che presso di loro, nella loro terra è avvenuta l’ estinzione del Compiuto, ed essi non si sono trovati presenti agli ultimi momenti del Compiuto.

«Sí, signore!» rispose Ânanda e, obbedendo al Sublime, prese mantello e scodella e si avviò da solo a Kusinâra. In quel mentre i Mallâ di Kusinâra erano adunati nella sala dell’assemblea, per sbrigare i loro affari; e il venerabile Ânanda vi si recò, per riferire il messaggio del Sublime. AIl’udir quell’annunzio, tutti i Mallâ, gli uomini, le donne ed i loro figli, rimasero colpiti, turbati, rattristati, battendosi il petto con le mani, strappandosi i capelli e lamentandosi: «Ahi, troppo presto si spegnerà il Sublime, troppo presto si chiuderà l’Occhio del mondo!». Quindi ora tutti i Mallâ, uomini, donne e bambini, tristi e dolenti, discesero nella campagna e si diressero con il venerabile Ânanda al bosco di sâla. E il venerabile Ânanda presentò i Mallâ al Sublime, non persona per persona, che non sarebbe bastato il tempo, ma gente per gente, famiglia per famiglia: cosí già nelle prime ore della notte egli aveva potuto presentare al Sublime tutti i Mallâ di Kusinâra.

Subhadda, l’ultimo discepolo

In quel tempo era giunto a Kusinâra un pellegrino di nome Subhadda, il quale, avendo anche egli appreso la notizia della prossima dipartita del Sublime, si presentò al venerabile Ânanda e gli disse: «Ho sentito dire, Ânanda, da vecchi pellegrini, da antichi, dotti maestri, quando parlavano tra loro, che raramente appaiono Compiuti nel mondo, santi, perfetti Svegliati. E questa notte si spegnerà qui l’asceta Gôtama. Ora è sorto in me un dubbio sopra una cosa; ed io ho fiducia, che l’asceta Gôtama possa risolvermi tale dubbio. Forse mi sarà concesso, di vedere il Sublime».

A queste parole il venerabile Ânanda rispose: «Basta, amico Subhadda: non infastidire il Sublime; è stanco il Sublime».

E per la seconda e la terza volta Subhadda ripetè la sua preghiera ed Ânanda oppose il suo rifiuto: finché il Sublime senti questa discussione tra il venerabile Ânanda e Subhadda e si rivolse al venerabile Ânanda: «Basta, Ânanda, non opporti a Subhadda: egli può vedere il Compiuto. Qualunque cosa Subhadda chiederà, la chiederà per desiderio di sapere, non per dare fastidio: e tutto quello che io, interrogato, gli risponderò, egli subito lo comprenderà».

Allora il venerabile Ânanda disse a Subhadda: «Vieni, amico Subhadda, il Sublime acconsente». Allora Subhadda il pellegrino si avanzò verso il Sublime, scambiò con lui cortese saluto e notevoli, amichevoli parole e gli si sedette accanto. Accanto seduto Subhadda il pellegrino disse ora al Sublime cosí: «Quegli asceti e sacerdoti, signore Gôtama, quei capi di scuole, seguiti da numerosi discepoli, noti e famosi pionieri, di grande rinomanza tra le genti, come Purana Kassapa, Makkhali Gosâla, Ajita Kesakambalî, Pakudha Kaccâyana, Sañjaya Belatthiputta, Nigantha Nâthaputta: tutti costoro sanno, come ciascuno di sé assicura, o tutti non sanno, od alcuni di essi sanno od altri non sanno?».

«Basta, Subhadda: lascia stare se tutti costoro sanno come ciascuno di essi di sé assicura, o tutti non sanno, od alcuni sanno ed altri non sanno. Io ti esporrò l’insegnamento: ascoltalo, Subhadda, e fa bene attenzione a quel che dirò».

«Sí, signore! » rispose Subhadda il pellegrino al Sublime.

Il Sublime disse questo:

«In qualsiasi regola e insegnamento, Subhadda, non si trovi il nobile ottuplice sentiero là neanche si trova il vero ascetismo. Ed in qualsiasi regola e insegnamento, Subhadda, si trovi il nobile ottuplice sentiero; là si trova anche il vero ascetismo. Ora in questa regola e insegnamento, Subhadda, si trova il nobile ottuplice sentiero: qui dunque, Subhadda, si trova il vero ascetismo, vuoto di dispute con altri asceti. E se questi monaci, Subhadda, persevereranno nella retta via, il mondo non sarà privo di santi. A ventinove anni d’età, Subhadda, mi distaccai dal mondo, in cerca di salvezza. Cinquantuno anni sono ora per me passati di ascetica vita, per vari luoghi vagando, il vero insegnamento esponendo, fuor della quale vero ascetismo non v’è. Se questi monaci quindi, Subhadda, persevereranno nella retta via, il mondo non mancherà di santi».

Dopo queste parole Subhadda il pellegrino disse al Sublime cosí:

«Benissimo, o signore, benissimo, o signore! Cosí come quasi, o signore, se uno raddrizzasse ciò che è rovesciato, o scoprisse ciò che è coperto, o mostrasse la via a sviati, o portasse luce nell’oscurità, in modo che chi ha occhi veda le cose: or cosí anche appunto il Sublime mi ha esposto l’insegnamento. E cosí io, o signore, prendo rifugio nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha. Voglia il Sublime concedermi accoglienza, impartirmi l’ordinazione».

«Chi prima, Subhadda, seguiva altra credenza e vuole poi avere ammissione ed ordinazione in questa regola e insegnamento, vi resta per quattro mesi; se dopo scorsi quattro mesi egli persiste, allora monaci provetti gli concedono l’ammissione e l’ordinazione nella vita monacale: perché io ho conosciuto una certa mutabilità».

«Se, o signore, per i seguaci di altra credenza è prescritto un periodo di prova di quattro mesi, io voglio restare qui quattro anni, prima di essere ammesso ed ordinato».

A questo il Sublime disse al venerabile Ânanda:

«Allora, Ânanda, accogli Subhadda».

« Sí, o signore! » rispose il venerabile Ânanda obbedendo al Sublime. E Subhadda fu accolto ed ebbe l’ordinazione presso il Sublime. E non da molto tempo il venerabile Subhadda era stato accolto nell’Ordine, che già egli, solitario, appartato, con strenuo sforzo lottando, aveva ben presto, ancora in vita, fatto a sé palese, realizzato e raggiunto quel sommo fine dell’ascetismo, che attira i nobili figli dalla casa al distacco dal mondo, riconoscendo: «Estinta è la nascita, compiuta la santità, ultimata l’opera, non esiste piú questo mondo.» Egli fu l’ultimo discepolo personale del Sublime.


SESTA PARTE

Ultime parole del Buddha

Quindi ora il Sublime disse al venerabile Ânanda:

«Può darsi, Ânanda, che voi pensiate: “Finito è l’ insegnamento del Maestro, noi non abbiamo piú Maestro!”. Ma la cosa, Ânanda, non dev’essere vista cosí. Quel che da me, Ânanda, vi è stato mostrato ed insegnato come regola e come insegnamento: quello, dopo la mia dipartita, sarà il vostro Maestro».

Quindi il Sublime si rivolse ai monaci:

«Se anche uno di voi, o monaci, sia in dubbio o in pensiero sul Buddha o sul Dhamma o sul Sangha o sulla via o sui passi, faccia domande ora ora, o monaci, perché poi non abbiate a provare rimorso: “Innanzi ai nostri occhi era il Maestro, e noi non interrogammo personalmente il Sublime!”».

Cosí esortati, i monaci rimasero silenti. Allora il Sublime disse ai monaci cosí:

«Può darsi, o monaci, che voi non interroghiate per rispetto del Maestro: allora lo dica l’amico all’amico». Ma, anche cosí esortati, quei monaci rimasero silenti. Allora il venerabile Ânanda disse al Sublime: «È mirabile, o signore, è straordinario, o signore! Io ho tale fede, o signore, in questo Ordine di mendicanti, da credere che non vi sia in esso anche un solo monaco, che sia in dubbio od in pensiero sul Buddha, sul Dhamma o sul Sangha o sulla via o sui passi».

«Di fede ora tu, Ânanda, parli; conoscenza ha però qui il Compiuto: non v’è in questo Ordine di mendicanti anche un solo monaco, che sia in dubbio od in pensiero sul Buddha, sul Dhamma o sul Sangha o sulla via o sui passi. Anche l’infimo di tutti questi monaci, Ânanda, è giunto all’audizione, è scampato al danno, si avanza cosciente verso il completo risveglio».

Quindi ora il Sublime si rivolse ai monaci. «Orsú dunque, o monaci, io vi esorto: periscono tutte le cose; datevi da fare per la vostra salvezza senza tregua».

Questa fu l’ultima parola del Sublime.

Il trapasso

Quindi il Sublime s’immerse in una serie di estasi successive, finché fu completamente estinto. E con l’estinzione del Sublime un fremito scosse la terra e passò per l’universo.

Con l’estinzione del Sublime, Brahmâ Sahampati, il possente, fece sentire questi accenti:

«Tutti gli esseri nel mondo trapassano ed i corpi si sfanno: cosí questo Maestro, senza pari nel mondo, compiuto, potente, svegliato, s’è estinto».

Con l’estinzione del Sublime Sakka, il re degli dei, fece sentire questi accenti:

«Impermanenti son tutte le cose, nate solo per perire, sorgono per tramontare: beato chi ne vede la fine».

Con l’estinzione del Sublime il venerabile Anuruddha fece sentire questi accenti:

«Senza piú trarre sospiro o respiro,
sereno, tranquillo il saggio s’ è spento.
Impavido avendo sopportato il dolore,
come una lampada si spegne, cosí Egli si estinse».

Con l’estinzione del Sublime il venerabile Ânanda fece sentire questi accenti:

«Un grande brivido passò per il mondo,
quando il perfetto Svegliato si estinse».

Con l’estinzione del Sublime alcuni monaci, con passione ancora non spenta, affranti e dolenti si lamentavano: «Troppo presto il Sublime si è estinto, troppo presto il Benvenuto si è estinto, troppo presto l’Occhio del mondo si è spento!». Quei monaci, però, nei quali la passione era spenta, quelli restarono scienti e coscienti: «Impermanenti sono tutte le cose: non può essere altrimenti». E il venerabile Anuruddha si rivolse ai monaci: «Basta, fratelli: non vi contristate, non vi lamentate. Non ci ha il Sublime già ripetutamente detto che tutte le cose care ed amate periscono, trapassano, si mutano? Come si può ottenere, che ciò che è nato, divenuto, composto, soggetto al disfacimento, non si disfaccia? Ciò non può essere».

Le esequie

Quindi ora il venerabile Anuruddha e il venerabile Ânanda passarono il resto della notte in colloquio sul Dhamma. Dopo di che il venerabile Anuruddha disse al venerabile Ânanda, di recarsi a Kusinâra, per annunziare ai Mallâ l’estinzione del Sublime. E il venerabile Ânanda, di prima mattina, preso mantello e scodella, salí a Kusinâra, portando ai Mallâ l’annunzio. Ed i Mallâ di Kusinâra, uomini, donne e bambini, discesero al bosco di sâla dove giaceva il cadavere del Sublime, e si prosternarono con devozione, rispetto e riverenza, coprendolo di fiori e profumandolo d’incenso. Quindi piantarono lí intorno tende e padiglioni, con bandiere e pennoni, e vi passarono sei giorni, con canti, musiche e danze in onore del Sublime.

Il settimo giorno, dietro indicazione ed esortazione di Anuruddha, otto nobili giovani Mallâ, delle migliori famiglie, vestiti di abiti nuovi, sollevarono il cadavere del Sublime e lo portarono, seguiti dal popolo in processione con canti e suoni, attraverso la porta settentrionale di Kusinâra, nel centro della città, di lí facendolo poi uscire dalla porta orientale, fuori della quale, presso il monumento dei Mallâ, allora tutto coperto dei fiori corallini di mandârava, essi disposero il rogo per la cremazione. Quindi essi chiesero al venerabile Ânanda come si dovesse procedere col cadavere del Compiuto. E il venerabile Ânanda rispose che bisognava procedere con le stesse regole e gli stessi onori con cui si procedeva alla cremazione del cadavere di un re guerriero, erigendo poi sulle reliquie un tumulo, al quale venendo poi i devoti in pellegrinaggio ad offrire corone, fiori o profumi o semplicemente la purezza dei loro cuori, ne ricavassero gioia e conforto. Allora i Mallâ di Kusinâra avvolsero il cadavere del Sublime in fasce di cotone cardato ed in teli di cotone tessuto, lo immersero in un vaso di ferro con olio e cosí lo collocarono sul rogo, tutto estrutto di legni odorosi.

Ora durante questo tempo il venerabile Mahakassapa, accompagnato da una comitiva di monaci, era in cammino da Pâvâ verso Kusinâra e s’era fermato all’ombra di un albero, accanto alla strada. In quel mentre un pellegrino nudo se ne veniva verso Pâvâ con un fiore di mandârava, che aveva raccolto a Kusinâra. E il venerabile Mahakassapa, avendolo visto, gli chiese: «Sai tu, amico, del nostro Maestro?».

«Sí che so, amico. Oggi son sette giorni che l’asceta Gôtama s’ è estinto a Kusinâra. Di là io ne vengo con questo fiore di mandârava». Nell’udire ciò alcuni monaci in cui la passione non s’era spenta, si rattristarono e si lamentarono: «Troppo presto il Sublime si è estinto, troppo presto il Benvenuto si è estinto, troppo presto l’Occhio del mondo si è spento!». Quei monaci, però, nei quali, la passione era spenta, quelli restarono attenti e coscienti: «Impermanenti sono tutte le cose: non può essere altrimenti».

Ma un vecchio pellegrino, di nome Subhadda, là seduto, disse ai monaci: «Basta, amici, non vi rattristate, non vi lamentate: siamo finalmente liberi di quel grande asceta. Eravamo seccati di sentir sempre: “Questo vi si addice, questo non vi si addice!”. Adesso noi faremo quel che ci piacerà, e non faremo quel che non ci piacerà».

Ma il venerabile Mahakassapa disse ai monaci: «Basta, fratelli: non vi contristate, non vi lamentate. Non ci ha il Sublime già ripetutamente detto, che tutte le cose care ed amate periscono, trapassano, si mutano? Come si può ottenere, che quel che è nato, divenuto, composto, soggetto al disfacimento, non si disfaccia? Ciò non può essere.

Il rogo funerario

Quindi ora il venerabile Mahakassapa, insieme con i i suoi monaci, si affrettò verso Kusinâra e giunse fuori della porta orientale, presso il monumento dei Mallâ, dove era eretto il rogo, ancora in tempo, prima che fosse dato alle fiamme. E il venerabile Mahakassapa denudò del mantello una spalla, giunse le mani sulla fronte, girò tre volte verso destra intorno alla pira ed inchinò riverentemente la testa ai piedi del Sublime. Ed altrettanto fecero gli altri monaci. Dopo quest’omaggio reso al Sublime da Mahakassapa e dai monaci, si accese il rogo.

Ora quando il corpo del Sublime fu consumato dalle fiamme, di quel che in esso v’era di pelle, di tendini, di carne di nervi e di liquidi, non ve n’erano rimasti neanche carboni e ceneri: le ossa solo erano rimaste. Cosí come quasi del burro e dell’olio bruciato nulla resta, or cosí anche appunto del corpo bruciato del Sublime nulla era rimasto, tranne le ossa. E un rovescio d’acqua dal cielo spense le ceneri del rogo, su cui anche i Mallâ di Kusinâra versarono acque odorose, in onore del Sublime.

La spartizione delle reliquie

Quindi ora i Mallâ portarono le reliquie del Sublime nella sala del parlamento di Kusinâra e ve le tennero per una settimana, cingendole di uno steccato di lance e di un traliccio di archi e rendendo loro omaggio, riverenza ed onore con musiche, canti, corone di fiori e profumi.

Intanto il re Ajâtasattu di Mâgadha, il figlio della Vedehi, aveva sentito che il Sublime si era estinto a Kusinâra, e mandò un messo ai Mallâ, per dir loro che, siccome il Sublime era di nascita un guerriero ed anche egli era di nascita un guerriero, gli spettava una parte delle reliquie del Sublime, sulle quali avrebbe eretto un tumulo, in memoria ed onore. Contemporaneamente giungevano a Kusinâra i messi dei Licchavi di Vesâli, dei Sakyâ di Kapilavatthu, dei Buliya di Allakappa, dei Koliya di Râmagâma, dei Mallâ di Pâvâ, nonché del brahmano Vethadipaka: i quali, per le stesse ed analoghe ragioni, chiedevano anch’essi una parte delle reliquie del Sublime, per erigervi sopra un monumento, in segno di memoria e di onore.

A tutti questi messi i Mallâ di Kusinâra risposero: «Il Sublime si è estinto nel nostro territorio: noi non daremo alcuna parte delle reliquie del Sublime».

Allora il brahmano Dona fece a tutti questo discorso: che lo Svegliato aveva sempre raccomandato la virtú della pazienza e non sarebbe stato quindi bene, che sorgesse zuffa per la divisione delle reliquie del Superuomo; che perciò fossero tutti concordi nel dividere equamente le reliquie in otto parti, avendo di mira i futuri, famosi monumenti che avrebbero attratto le genti alla memoria del Veggente. Tutti acconsentirono a questa proposta. Ed il brahmano Dona, dopo aver diviso equamente le reliquie in otto parti, chiese come compenso per sé il vaso della cremazione, sul quale avrebbe eretto anch’egli un monumento, in segno di memoria e di onore.

Intanto i Moriyâ di Pipphalivani avevano appreso anche essi, con ritardo, la notizia dell’estinzione del Sublime e mandarono a chiedere, quali guerrieri, anche per loro una parte delle reliquie. Ma, essendo state queste già tutte divise, furono dati loro i carboni e le ceneri del rogo, su cui potessero essi pure erigere un monumento.

Quindi ora il re Ajâtasattu di Mâgadha fece con grandi feste erigere a Râjagaha il monumento sulle reliquie del Sublime; e cosí i Licchavi a Vesâli, i Sakyâ a Kapilavatthu, i Thulia ad Allakappa, i Koliya a Râmagâma, il brahmano Vethadipaka, i Mallâ a Pâvâ, i Mallâ a Kusinâra, il brahmano Dona ed i Moriyâ a Pipphalivani: tutti eressero, tra grandi feste, i loro monumenti sulle reliquie del Sublime.

Cosí questo avvenne allora.

FINE


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