La doma del cavallo (o del bue, o del toro) è una ben nota metafora buddista che risale al Canone e alle parole del Buddha. Indica l'arte di addestrare la mente, che viene paragonata all'allevamento di un bovino che, da nero, progressivamente diventa sempre più bianco. Per l'adeguata comprensione di questa allegoria, bisogna ricordare, però, che il capo di bestiame è molto prezioso per l'allevatore e rappresenta, per lui, un vero e proprio patrimonio, nonché un investimento economico da cui dipende la vita futura del contadino e di tutta la sua famiglia. Non dimentichiamo che stiamo parlando dell'economia rurale indiana di oltre 25 secoli fa.
Nel Commentario al Dhammapada (v. 203) troviamo anche la storia del villico che vagò disperato tutto il giorno nella foresta per cercare il bue che aveva perduto. Si narra anche che il Buddha, per pronuciare il suo discorso, non solo aspettò che l'uomo ritornasse al villaggio, facendo così aspettare tutti gli astanti per molte ore, ma, sorprendendo tutti, chiese anche che al contadino stanco e affamato, quando finalmente arrivò, fosse dato da mangiare (è disdicevole che un bhikkhu chieda da mangiare, sia pure per un altro), perché, altrimenti quell'uomo, che pure aveva il potenziale del risveglio, a causa della fame, non sarebbe stato in grado di ascoltare gli insegnamenti e di giovarsene.
Bue, toro o cavallo che sia, la mente-cuore è la nostra dote e il nostro patrimonio più prezioso. Per questo il saggio la tratta con riguardo. Per domare un purosangue occorrono sapienza e pratica, altrimenti si può venir disarcionati, e rendersi invalidi per sempre, oltre a storpiare l'animale. Cavallo e cavaliere sono interdipendenti, e il cavallo doma il cavaliere nella misura in cui il cavaliere doma il cavallo. Personalmente, tra il metodo dell'indiano Sioux che sussurra all'orecchio del cavallo e il rodeo alla John Wayne, preferisco il primo. E non è, credo, solo una questione di gusti.