Perché il Dhamma?

Ho cominciato a interessarmi di spiritualità orientale quando avevo 18 anni, nel lontano 1968. Quel che mi muoveva allora era la «ricerca del miracoloso». Affascinato dall'autobiografia di Yogananda Paramahansa, vagheggiavo una vita spirituale piena di effetti speciali: apparizioni, bilocazioni, viaggi astrali, visioni estatiche, emozioni trascendentali, orgasmi cosmici. Passavo le notti a leggere avidamente libri sul karma, la reincarnazione, la vita oltre la vita, le energie sottili dell'universo, mistici e maghi del Tibet, il destino come scelta ecc. …

Sant Kirpal Singh Ji Maharaj Ciò che diede effettivo inizio al mio percorso fu l'incontro con un uomo straordinario, un guru indiano di nome Kirpal Singh. Non divenni formalmente suo discepolo, ma rimasi fortemente impressionato da un fugace contatto che ebbi con lui. Kirpal Singh morì (pardon, lasciò il corpo) nel 1974 e, paradossalmente, fu la notizia della sua morte la molla che mi spinse alla ricerca di un guru, di qualcuno che, insomma, potesse soddisfare la mia bruciante sete di percezioni extrasensoriali e di miracoli. Mi misi alla ricerca e, siccome si trova sempre quel che ci si mette a cercare, trovai il maestro che corrispondeva esattamente al mio identikit. Bello (sembrava Santa Klaus), dolce e severo nello stesso tempo, con un passato (dicevano) da vero yogi. Viveva in un posto che sembrava il presepe. Non c'era energia elettrica, e la vita vi si svolgeva esattamente come centinaia, se non migliaia, d'anni fa. La gente dell'ashram era bellissima, meravigliosa, vestiti come personaggi delle mille e una notte, sempre sorridenti, Sant Ajaib Sing Ji apparentemente pacificati e sereni. Mi sembrò di vivere finalmente la realizzazione del mio sogno. Dopo due anni di discepolato e di devota partecipazione all'attività di un gruppuscolo «mistico», fu nel 1979 che avvenne quella che, da allora, io definisco come la mia «iniziazione». In un soleggiato giorno di febbraio, a migliaia di miglia lontano da casa, nel deserto del Rajasthan, in un paesaggio d'incanto, quale mai avrei nemmeno potuto immaginare, mi accorsi, con mortificazione, che non solo non avevo trovato quel che andavo febbrilmente cercando, ma che m'ero ingannato per un sacco di tempo, inseguendo una domanda impossibile. Il guru non era affatto speciale. Era un brav'uomo e non faceva niente di male, anzi, dispensava pure buoni consigli, ma non era l'essere straordinario che io avevo proiettato nel cinerama della mia mente. Insomma, scoprii in un solo botto quanto è grande il potere dell'autoinganno. Per almeno due anni me l'ero covato in seno, coccolandolo come la più brillante delle idee. Ritornai a casa con una consapevolezza nuova, e con una domanda molto chiara in testa: che fare per evitare l'autoinganno? Nella disillusione avevo imparato una cosa importante: tutto quel che m'era apparso evidente solo in quel giorno di memorabile disincanto era già lì sotto il mio naso ben prima che me ne accorgessi, se solo avessi avuto l'onestà verso me stesso di vederlo e non mi fossi volontariamente coperto gli occhi con robuste fette di melanzana (allora ero strettamente vegetariano).

Non persi l'interesse per la spiritualità, ma da allora la mia ricerca prese tutt'altra direzione. Poiché avevo sviluppato una sorta di avversione a tutte le fanfaluche metafisiche, quel che mi misi a cercare, dopo un necessario periodo sabbatico d'integrazione, era una «scuola di consapevolezza» nella quale si imparasse a esercitare l'attenzione e la sincerità verso se stessi. Cominciai a frequentare un dojo dove si imparava l'aikido. Mi piaceva moltissimo, perché la pratica costringeva a tenere gli occhi ben aperti e l'attenzione vigile, in quanto la disattenzione poteva costare un incidente. Dall'aikido al buddismo il passo è breve. Anche se fin dalla mia adolescenza il mondo buddista m'aveva sempre affascinato per i suoi aspetti esotici e misteriosi, solo allora riconobbi nella meditazione buddista una risposta alla mia domanda pressante di un metodo, di una scuola dove s'imparasse a star svegli, a essere presenti, vigili, attenti e consapevoli.

Se c'è una domanda, dicono, la risposta viene anche senza cercarla. Infatti fu la vipassana a cercare me sotto forma di un volantino che annunciava un corso. Mi iscrissi senza pensarci due volte. Era l'ottobre del 1982 quando mi ritrovai in una grande sala per l'inizio del mio primo ten-day course.

Mi resta solo da aggiungere che mai e poi mai avrei potuto trovare quel che cercavo nel cristianesimo. La mia «iniziazione» me lo aveva precluso per sempre e, insieme al cristianesimo, tutte le altre religioni. Solo nel Dhamma trovai quel che cercavo: una scuola di consapevolezza e di disincanto, che non ha nulla a che fare con alcuna religione, forse neanche col buddismo. E questa non è la fine, ma solo l'inizio del viaggio.

Inserito Lun - Settembre 19, 2005, 09:57 m. in

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