Il 10 marzo 1959 è la data-simbolo della tragedia tibetana. Per otto lunghi anni il popolo tibetano senza difese e privo di aiuto internazionale sperò di trovare una forma di convivenza con il nuovo potere cinese. Ma fu tutto inutile. In quei giorni si ruppe la fragile convivenza: a Lhasa la rivolta fu soffocata nel sangue. Iniziò così la tragica storia del Tibet moderno: centinaia di migliaia di morti, le carestie nelle campagne espropriate, la distruzione dei monasteri, la deportazione dei monaci ridotti allo stato laicale, l’esilio in India e in occidente. È la storia del Tibet di oggi, un paese senza libertà la cui unica speranza risiede nella saggezza del suo popolo e del suo leader, il Dalai Lama, che continua incessantemente a richiedere una soluzione pacifica e non violenta al problema tibetano. La Cina è un grande e importante paese in rapida trasformazione. Se però vuole essere giustamente non solo rispettata ma anche ammirata e amata, deve riconoscere che è giunto il momento di aprire il capitolo del rispetto delle libertà civili e dei diritti umani. Se non si farà subito qualcosa, il Tibet rischia di diventare una nuova area di crisi. Bisogna fare presto, non solo perché l’identità e la cultura di un popolo rischiano di sparire, ma anche per evitare che la stessa scelta non violenta venga travolta dall’assenza di risposte.