Απόφασις
Esiste, o monaci, un non nato, non evoluto, non fatto, non
condizionato. Se non ci fosse questo non nato, non evoluto, non fatto, non
condizionato, non si potrebbe scorgere via di scampo dal nato, evoluto, fatto,
condizionato. Ma poiché, invece, c'è un non nato, non evoluto, non
fatto, non condizionato, si scorge una via di scampo dal nato, diventato, fatto,
condizionato (Itivuttaka, 43).
La scelta del Buddha di definire il
nirvana con una serie
di negazioni è coerente con il suo sistema di pensiero, vedi la nota
parabola dei
ciechi e dell'elefante
. Nella storia della filosofia indiana (ma potremmo tranquillamente
dire del pensiero umano) esiste una corrente trasversale, detta «
apofatica»
i cui esponenti sostengono l'impossibilità di esprimere in positivo
ciò che il divino è, perché esso trascende ogni concetto, formula
e definizione; ogni tentativo di nominare ciò che è totalmente altro,
per renderlo pensabile, è destinato creare un oggetto mentale, tradendo
così l'ignoto che s'intende
significare.
In
questo senso, il Buddha fu apofatico come forse nessun altro. Perciò venne
detto
muni. Infatti
mauna (pronunciato «muna») è,
in sanscrito, il voto di silenzio e
muni (che vuol dire votato al
silenzio) è il nome dato ancor oggi agli asceti
hindu che praticano
quest'austerità. Ma, si dirà, il Buddha parlava. È vero; ma
rimaneva spesso in silenzio, specialmente di fronte alle domande metafisiche. Un
silenzio che non significava assenso né diniego, ma che esprimeva
l'impossibilità di dare una risposta verbale soddisfacente.
Una
volta un filosofo domandò al Buddha: «Senza parole, senza
l'inespresso, vuoi dirmi la verità?». Il Buddha rimase in silenzio. Il
filosofo fece un inchino e ringraziò il Buddha dicendo: «Con l'aiuto
della tua amorevole bontà mi sono liberato delle mie illusioni e ho
imboccato la vera via». Quando il filosofo si fu allontanato, Ananda
domandò al Buddha che cosa avesse ottenuto quel tale. Il Buddha rispose:
«Un buon cavallo corre anche soltanto all'ombra della frusta». (da
Mumon,
La porta senza porta).
Un atteggiamento, quello
del Buddha, che però non era affatto una novità per la tradizione
vedica:
Nella Brihadaranyaka Upanishad i discepoli chiedono a
Yajnavalkya di descrivere Dio. Lui risponde: «Il divino non è questo
e
non è quello» (
neti, neti). Ovvero, il divino non è
reale come siamo reali noi, e non è nemmeno irreale. Il divino non vive nel
senso in cui gli esseri umani vivono e non è nemmeno privo di vita. Il
divino non è misericordioso nel senso in cui noi usiamo il termine, e non
è nemmeno privo di misericordia. E così via. Non potremo mai veramente
definire Dio con le parole. Tutto ciò che possiamo dire è: «Non
è questo, e non è quello». Alla fine, per capire la natura del
divino, bisogna andare oltre le parole. In questo senso, neti-neti non è
una negazione. È piuttosto l'asserzione che qualunque cosa il divino sia,
quando tentiamo di catturarlo con parole umane, inevitabilmente le parole ci
vengono a mancare, perché la nostra comprensione è limitata ed è
ancor più limitata la capacità delle parole di esprimere il
trascendente.
Nello Zen si narra che il Buddha trasmise il
patriarcato a Maha-Kâshyapa in silenzio, in questo
modo:
Un
giorno il Buddha, accompagnato da numerosi discepoli, stava sul Picco
dell'Avvoltoio seduto in meditazione. I discepoli lo circondavano in rispettoso
silenzio in attesa che parlasse, coscienti che quello poteva essere uno dei suoi
ultimi discorsi, data l'età già avanzata. Ma il Buddha, invece di
parlare, prese un fiore di
udumbara (
Ficus glomerata) lo
sollevò e lo mostrò sorridendo ai presenti che ne rimasero
sconcertati. Ma Maha-Kâshyapa, uno dei suoi più intimi discepoli,
sorridendo diede segno di aver capito.
Inserito Ven - Agosto 25, 2006, 09:25 m. in
Ritorna a: |
Inserisci qui il tuo commento: