I ciechi e l'elefante


Un amico che studia e pratica il buddismo ormai da molti anni mi ha detto: «La parabola dei ciechi e dell'elefante dovrebbe essere inserita nei libri di testo delle elementari». Tolstoj la pensava come lui, dato che la incluse nei suoi Libri di lettura dedicati all'istruzione dei fanciulli. Ma che cosa dice questa parabola, che si trova nel Canone buddista (Udana VI, 4, 66-69)?


C’era una volta un re che ordinò al suo ministro: «Riunisci in piazza tutti gli uomini del regno, che sono ciechi fin dalla nascita!». Il ministro eseguì e il re si recò sulla piazza, dov'erano riuniti i ciechi, quindi chiamò l'elefantiere, e disse: «Questo è l'elefante!». E fece toccare ad alcuni ciechi la testa, ad altri le orecchie, ad altri le zanne, ad altri la proboscide, ad altri il ventre, ad altri le gambe, ad altri il dietro, ad altri il membro, ad altri la coda; sempre a tutti dicendo: «Questo è l'elefante!».

I ciechi e l'elefante, © Copyright © 1998 by Washington CEO Inc.
«Elephant and Blind Men», di Carl Bennett

Poi il re si accostò ai ciechi e chiese loro se avessero toccato l'elefante. «Sì, Maestà!» risposero. «Allora ditemi a che cosa rassomiglia». E i ciechi cominciarono a descrivere a modo loro l'elefante.

Quelli che avevano toccato la testa dissero che rassomigliava a una caldaia. Quelli che avevano toccato le orecchie dissero che rassomigliava ad un ventilabro. Quelli che avevano toccato le zanne che rassomigliava ad un vomere. Quelli che avevano toccato la proboscide che rassomigliava ad un manico d'aratro. Quelli che avevano toccato il ventre dissero che rassomigliava ad un granaio. Quelli che avevano toccato le gambe, dissero che rassomigliava a colonne. Quelli che avevano toccato il dietro, dissero che rassomigliava ad un mortaio. Quelli che avevano toccato il membro, dissero che rassomigliava ad un pestello. Quelli che avevano toccato la coda, dissero che rassomigliava ad uno scacciamosche.

E, siccome ognuno sosteneva la sua opinione, cominciarono a discutere e finirono con l'accapigliarsi e percuotersi, gridando: «L'elefante rassomiglia a questo, non a quello! Non rassomiglia a questo, rassomiglia a quello!». E il re si divertì a quella zuffa.

A parte che, secondo me, quello che nella storia ci fa la peggior figura è il re che si prende gioco dei ciechi, questa parabola è particolarmente significativa perché ha diverse implicazioni. La prima è che ciascuno tende a rappresentarsi l'elefante-realtà a seconda della percezione che ne ha tramite il proprio limitato apparato conoscitivo, ragion per cui, anche se si trovasse di fronte alla scaturigine di tutte le verità e di tutta la sapienza potrebbe comprendere solo ciò che la sua mente sarebbe in grado di accogliere: quidquid recipitur, recipitur secundum recipientem. Ossia, sarebbe sempre e comunque la «sua» verità, una sola versione tra le molte possibili e, per quanto «vera», in ogni caso parziale e incompleta.

Perciò non bisogna cedere alla tentazione di teorizzare. La realtà è assai complessa, ma noi esseri umani, forse geneticamente programmati a fabbricarci una visione del mondo perché necessaria alla sopravvivenza, tendiamo, una volta colto un brandello di verità, a farne, con grande azzardo, una teoria globale.

I sufi raccontano al riguardo quest'altra storiella: Berlicche era in giro per la Terra per addestrare il giovane apprendista Malacoda. A un tratto Malacoda esclamò: «Ehi, Berlicche... fa' attenzione! Quell'uomo laggiù ha raccattato un pezzetto di verità!». Ma Berlicche ghignava soddisfatto, lisciandosi la barba caprina: «Non ti preoccupare. Io gliela farò organizzare».

Qualche anno fa, padre Silvano Fausti, gesuita, commentando a Villapizzone un passo del vangelo di Marco in cui gli apostoli discutevano animatamente sui diavoli, disse:

«Ecco: non capiscono e discutono. In questo modo nasce la teologia».

La mente è come un paracaduteSempre in tema, nel Canone buddista troviamo, nel Dighanaka-sutta, la parabola del giovane vedovo. Questi aveva un figlio di cinque anni che amava più della sua stessa vita. Un giorno dovette lasciarlo a casa e uscire per affari. Arrivarono i banditi che saccheggiarono il villaggio, lo diedero alle fiamme e rapirono il bambino. Ritornato, l'uomo trovò la casa bruciata e, lì accanto, il cadavere carbonizzato di un bambino. Credette che fosse il figlio. Pianse di dolore e cremò ciò che restava del corpo. Amava tanto il figlio che ne raccolse le ceneri in una borsa che portava sempre con sé. Mesi dopo, il figlio riuscì a scappare e ritornò al villaggio. Era notte fonda quando bussò alla porta. Il padre stringeva tra le braccia la borsa con le ceneri e singhiozzava. Non aprì la porta, benché il bambino dicesse di essere suo figlio. Era convinto che il figlio fosse morto e che alla porta battesse un bambino del villaggio che voleva prendersi gioco del suo dolore. Il bambino fu costretto ad andarsene, e padre e figlio si perdettero per sempre.

Se ci attacchiamo a un'idea e la riteniamo la verità assoluta, potremmo trovarci un giorno nella situazione del giovane vedovo. Pensando di possedere già la verità, non potremo aprire la mente per accoglierla, anche se la verità in persona bussasse alla nostra porta. Come diceva anche Lord Thomas Dewar, le menti sono come paracadute: funzionano solo se aperte (vedi immagine).

Credere di possedere la verità è, per il Buddha, come autoimporsi una condizione di cecità. Per vederci meglio dovremmo, paradossalmente, ricordarci d'esser ciechi. Stando bene attenti a come palpiamo l’elefante, perché non si sa mai…


Inserito Dom - Maggio 8, 2005, 09:00 m. in

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