Prendere rifugio

Nell'India antica, prendere rifugio voleva dire sottomettersi a un re, a un nobile, a un gran sacerdote — a un potente, insomma — in modo da riceverne protezione e guida. Un costume simile vigeva anche nell'antica Roma, dove ogni notabile aveva i suoi clientes. I primi discepoli del Buddha adoprarono quest'espressione, allora d'uso corrente, per professare la loro fedeltà al maestro, nonché l'adesione al suo insegnamento e al suo codice di disciplina …
Tiratana
Nella moderna pratica quotidiana, il rifugio nella Tripla Gemma (Buddha, Dhamma e Sangha) presenta due aspetti, uno esteriore ed uno interiore. Dal punto di vista esteriore (religioso) esprime l'adesione a quel che noi oggi chiamiamo buddismo, articolata nell'accettazione del Buddha come maestro, del suo insegnamento (Dhamma) come stile di vita e della comunità di pratica (Sangha) come protezione e guida; dal punto di vista interiore (spirituale), invece significa l'affidamento alle tre qualità che le Tre Gemme rappresentano: ovvero al pieno risveglio spirituale che è la nostra vera natura, rappresentato dal Buddha; alla verità, nel senso di evidenza, rappresentata dal Dhamma e alla pratica della moralità, della concentrazione e della meditazione, rappresentate dal Sangha.

Per comprendere meglio che cosa possa significare per noi oggi prendere rifugio, possiamo esaminare le molte cose nelle quali ci rifugiamo ogni giorno. I rifugi non sono altro che i molti modi in cui cerchiamo di sfuggire alla pressione della vita, alla perenne insoddisfazione, alle quotidiane paure, ansie e instabilità emotive e psicologiche. Accanto ai quattro rifugi principali, rappresentati dal cibo e dalle bevande, dagli abiti, dalla casa e dalle medicine, possiamo facilmente renderci conto che non passa giorno senza che noi si prenda rifugio in un'infinità di cose.

A partire dal caffè e dalle sigarette, fino al cellulare, all'ipod, al computer e alla televisione, tutta la nostra giornata viene da noi riempita di espedienti e di trappole con cui cerchiamo di alleviare la pressione interna. Ma il luogo in cui preferiamo andare a rifugiarci sono i nostri pensieri. Il chiacchiericcio mentale è il nostro vero e costante rifugio, al quale ricorriamo ormai senza nemmeno accorgercene, tanto l'abitudine è diventata per noi con gli anni una seconda natura. Ci rifugiamo nei sogni, nelle fantasie, nei progetti, nei castelli in aria per compensare, in qualche modo, quella coperta corta che è la vita.

Se siamo onesti, dobbiamo ammettere che anche i rifugi nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha sono per noi, per lo più, una dichiarazione ideologica, un altro espediente, l'ennesimo, per evadere dalla pressione, un riempitivo per rassicurarci che stiamo cercando di fare «la cosa giusta», per poter continuare a intrattenere un'immagine decente di noi stessi. Un grande maestro, Chögyam Trungpa, definì tutto ciò come materialismo spirituale.

E allora che fare? Non c'è davvero speranza di sfuggire a questi rifugi che non riparano da niente? Siamo condannati a continuare a baloccarci con teorie e ideologie di seconda mano, imparucchiate male, con mantra e con cerimonie di cui non comprendiamo né lo scopo né il significato, illudendoci nel contempo che stiamo andando verso la fine del dolore?

Ovviamente no. Non siamo condannati se... non ci condanniamo da soli. È a questo punto che possiamo scoprire che cosa significhi davvero il rifugio nella Tripla Gemma, che non è un'identità da esibire, un nome esotico con cui firmare l'email o un distintivo da appuntare sul bavero della giacca e nemmeno un'idea brillante, una trovata, di cui parlare al prossimo apritivo con gli amici.

«Coloro che considerano essenziale ciò che non lo è e non essenziale ciò che lo è non arrivano all'essenza e inseguono falsi obiettivi Coloro che considerano essenziale ciò che lo è e non essenziale ciò che non lo è arrivano all'essenza e inseguono giusti obiettivi» (Dhammapada, 11-12).

Chissà se mi sono capito.

Inserito Sab - Dicembre 17, 2005, 03:07 p. in

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